Il significato nascosto nelle pagine del libro più sublime e ammirato del Vecchio Testamento
di Gianfranco Ravasi
L’eros biblico fra uomo e donna come via che porta alla salvezza
«Non c’è nulla di più bello del Cantico dei cantici»: queste parole di uno dei personaggi dell’Uomo senza qualità di Musil esprimono l’ammirazione che ha sempre circondato questo poemetto biblico, fatto di sole 1250 parole ebraiche, lo 0,42 % dell’intero Antico Testamento. Quasi un frammento, dunque, che ha però meritato il titolo di Shir hasshirîm, Cantico dei cantici, un superlativo ebraico per indicare appunto il canto sublime dell’amore, della bellezza, della vita. Vorrei permettermi una nota personale anche perché toccherà a me guidare in Duomo gli ascoltatori di quel testo sacro. Il mio incontro con la coppia che domina questi 117 versetti, una Lei e un Lui senza nome (il termine Shulammît riservato alla donna è solo uno pseudonimo ammiccante al re Salomone, immaginato dalla tradizione come autore del poema), è iniziato più di vent’anni fa, quando nel 1985 scrissi un primo, essenziale commento per le edizioni San Paolo. In appendice padre David M. Turoldo aveva aggiunto un’appassionata postfazione e da allora quel libro, tradotto in varie lingue, è stato riproposto in una decina di edizioni fino a quando nel 1992, dopo vari saggi su aspetti specifici del Cantico, pubblicai un commento scientifico in senso stretto presso le edizioni Dehoniane di Bologna: esso, per certi versi, era il segno dell’impotenza e dell’inadeguatezza della critica di fronte alla creatività della poesia, tant’è vero che avevo dovuto comporre quasi un migliaio di pagine, fittissime di note, per commentare quel poco più di un migliaio di parole! Ma a questo punto è facile una domanda: come mai tanta passione da parte di un ecclesiastico celibe per un testo che ironicamente Renan, il famoso studioso ottocentesco, comparava a «un libretto erotico nascosto tra le grandi pagine in folio di una biblioteca di teologia?». La risposta è da cercare proprio nel significato ultimo di questo poemetto. Un significato variamente strattonato all’interno della storia dell’esegesi, tant’è vero che un rabbino del X secolo, Saadia ben Joseph, ricorrendo forse inconsciamente a una metafora amorosa, raffigurava il Cantico a una serratura di cui si è smarrita la chiave. Si sono, così, moltiplicati i tentativi per aprirla. Lo spettro cromatico di queste interpretazioni va dal rosso infuocato delle letture meramente "erotiche", sul modello di certi papiri egizi o di "idilli" greci (era la cosiddetta - e la definizione è emblematica - école voluptueuse che designava quel particolare genere ermeneutico), ma scivola anche verso il polo opposto, quello del più gelido violetto di una lettura spiritualistica dominante per secoli nella tradizione giudaica e cristiana. Essa vedeva nel Cantico l’angelicata trasfigurazione dell’amore tra Dio e Israele, tra il Signore e l’anima e persino tra Cristo e Maria. Ora, è indubbio che il Cantico parte dall’amore nuziale di una coppia innamorata concreta, idealmente dipinta su uno sfondo primaverile (le tele che Chagall ha dedicato ai due protagonisti sono, al riguardo, molto suggestive). Il poema si apre con un bacio, ecco poi gli occhi della donna che ammiccano dietro il velo; si passa alla capigliatura, al candore dei denti, al rosso porpora delle labbra, alla guancia simile alla melagrana, al collo slanciato, ai seni che ondeggiano «come due cerbiatti gemelli». E poi è la volta dell’uomo, chiamato per più di trenta volte col vezzeggiativo dodî, «amato mio», in pratica «tesoro mio»: egli entra in scena col suo corpo possente e scultoreo, simile appunto a una statua d’oro e d’avorio egizia. Eppure il Cantico non vuole costruire né un ritratto di membra avvinghiate in un amplesso né un’eterea raccolta di anime. Il suo è un percorso simbolico in senso stretto che parte dalla corporeità e da una relazione d’amore per scoprirvi ed esaltare un Oltre e un Altro trascendenti. Così, da un lato, nel corpo si intrecciano le tre grandi esperienze dell’autentica relazione umana: la sessualità con la sua fisicità e istintività, l’eros che è tenerezza, bellezza e passione, e infine l’amore, l’ahavah che è donazione reciproca totale e assoluta, quella che nel Nuovo Testamento sarà espressa con la parola greca agàpe (come canta la donna: «io sono del mio amato e il mio amato è mio»). D’altro lato, il Cantico vuole iscrivere in questo amore personale - proprio nella linea dell’enciclica Deus caritas est di Benedetto XVI - anche l’Amore trascendente ed eterno. È per questo che sull’abbraccio dei due innamorati si accende una «fiamma del Signore» (8, 6) che rimanda all’infinito Amore, «forte come la Morte». In questa luce il grande scrittore e mistico spagnolo san Giovanni della Croce, in quel gioiello poetico e contemplativo che è il suo Cantico Spirituale, intessuto sul poema sacro, renderà appunto quell’abbraccio - che non cessa di essere umano - l’epifania del divino, consapevole che «se esiste l’amore, esiste Dio». Aveva ragione, allora, il grande scrittore cristiano del III sec. Origene, quando scriveva: «Beato chi comprende e canta i cantici delle Sacre Scritture! Ma ben più beato chi canta e comprende il Cantico dei cantici!».
«Corriere della sera» del 28 marzo 2007
Nessun commento:
Posta un commento