Com'è cambiata l'idea di trasgressione a 150 anni dai processi a Baudelaire e Flaubert? E' il tema di un saggio di Elisabeth Ladenson appena uscito negli Usa. E dove tutto inizia con il "lavaggio" delle e-mail
di Stefania Vitulli
Il futuro dell’oscenità in letteratura in Europa si giocò centocinquanta anni fa: il 1857 fu l’anno in cui per i vittoriani nacque il comune senso del pudore su carta stampata, grazie alla pubblicazione dell’Obscene Publications Act, mentre per i francesi si dichiarò la disfatta, agli occhi dei benpensanti, di due tra i più grandi capolavori della letteratura mondiale, I fiori del male e Madame Bovary, pubblicati in quell'anno e subito finiti entrambi sotto processo.
Ma a centocinquant’anni dai processi a Baudelaire e a Flaubert, poco sembra cambiato: non il concetto di osceno, né quello di trasgressione, almeno non nei tratti salienti della morale popolare. Elisabeth Ladenson - professore di letteratura francese e comparata alla Columbia University - ha tentato di comprendere come, in un secolo e mezzo, ciò che veniva considerato osceno abbia potuto trasformarsi in classico immortale. L’arte, si chiede la Ladenson, è ancora filtro all’osceno? Sopravvivono argomenti che possano dirsi osceni e perciò indicibili in un’opera che vada considerata artistica? Domande tornate d’attualità in un momento in cui congetturare intorno ai limiti e alla morale pare divenuto inevitabile, a partire dalle piccole cose. Così è nato Dirt for Art’s Sake, il saggio firmato dalla Ladenson e appena uscito negli Stati Uniti (Cornell University Press, pagg. 304, $ 29.95). Tra l'altro vi si mettono a confronto proprio le due opere citate: Madame Bovary, che scampò alla censura, e le poesie di Baudelaire, ripubblicate quattro anni dopo in forma «epurata». Tuttavia è proprio I fiori del male che secondo la saggista americana oggi si trova a mal partito se confrontato con un’idea di male universale: un secolo dopo, infatti, l’idea che quel giocattolo diabolico di cui Baudelaire si servì per épater les bourgeois potesse rappresentare un credo estetico appare infantile, tanto che la Ladenson non esita ad appioppare al poeta francese l’appellativo ironico di «fiorista del male».
A dimostrazione dei suoi intenti di attualizzazione del concetto di oscenità, la Ladenson è partita, per la compilazione del suo personale processo all’osceno, da una banalità del quotidiano. Ha scoperto un giorno, per caso, che il suo programma di posta elettronica Eudora era dotato di un’opzione chiamata Moodwatch, destinata a «ripulire» le email in partenza da eventuali espressioni indecenti. Una forma di censura ipertecnologica di cui la studiosa si è applicata a stabilire i criteri, scoprendo che la maggior parte di essi risalivano alle stesse classificazioni di oscenità che diedero vita ai processi in cui furono coinvolte opere che oggi consideriamo senza tema di smentita capolavori letterari imperituri. Da qui l’urgenza di capire se in letteratura il senso del pudore abbia appunto ancora un senso.
Il percorso della studiosa inizia con Madame Bovary e termina con Fanny Hill, scritto nel XVIII secolo e messo sotto processo negli Stati Uniti nel 1966. Lungo la strada, si sofferma su Ulisse, Il pozzo della solitudine, L'amante di Lady Chatterley, Tropico del Cancro, Lolita e alcuni lavori del Marchese De Sade. Secondo l’autrice sono due le idee che tra Ottocento e Novecento sono passate da pura eresia a truismo e poi ad argomentazione difensiva per le opere accusate di oscenità: «l’arte per l’arte», ovvero il fatto che un’opera d'arte vada considerata tale indipendentemente dal tasso di oscenità presente nelle sue pagine, e il realismo, che la Ladenson identifica con l’espressione che dà il titolo al suo libro: «l'osceno per l’arte», ovvero la licenza di descrivere in un’opera tutti gli aspetti della vita, compresi i più sordidi e sgradevoli.
Utilizzando i verbali dei processi, gli epistolari, gli articoli dei giornali dell’epoca e la letteratura sull’argomento, la Ladenson traccia la parabola del concetto di oscenità, per censura e per appetito, concentrandosi su adulterio, omosessualità e pedofilia. Parte interessante del lavoro è quella costituita dall’analisi dei più recenti adattamenti cinematografici delle opere di cui parla il volume, dalle Lolita di Stanley Kubrick e Adrian Lyne alla Madame Bovary di Vincente Minnelli fino ai film tratti dai racconti di De Sade e dalla sua biografia: secondo la studiosa anche questi adattamenti sono «vittime» dei medesimi processi di censura operati nei secoli scorsi e molto spesso «ereditati inconsciamente».
Perché allora ci pare che di questi tempi tutto venga accettato e la morale sconfitta? Perché la diffusione mediatica ripulisce la rappresentazione oscena del contenuto viscerale e in qualche modo la «estetizza», scollegandola dal reale, allo stesso modo in cui agisce con la violenza. La virtualità insomma, «purifica» l’osceno proprio da quel che lo caratterizza ancora come tale: gli odori, gli umori, il muco. A questo proposito, risulta illuminante il capitolo del saggio dedicato all’Ulisse di Joyce, in cui l’autrice colleziona una serie di giudizi strepitosi, che mettono a confronto l’«erotico» e l’«escretorio», confronto da cui risulta che è il secondo a rendere il primo insopportabile e volgare e che se al sesso si dà una ripulita sensoriale, ecco che ne risulta sopportabile, anzi pienamente godibile, la sua eventuale sporcizia morale. L’oscenità letteraria risiede, secondo la Ladenson, non tanto nelle scene erotiche, quanto nella fisicità dei dettagli. Una fisicità tanto più spinta in quanto non drammatica, non violenta e non legata alla morte e perciò amorale. Il sesso è anche muco: è questa la minaccia, perché introduce in letteratura il principio per cui la sgradevole banalità del quotidiano diviene «epica degradata», come scrisse Martin Amis.
Tempo fa, l’ultraottantenne Edith Templeton, una delle scrittrici messe all’indice negli anni Sessanta in mezza Europa e negli Stati Uniti per il suo romanzo di esplicito erotismo sadomaso Gordon (Neri Pozza), mi disse che non considerava affatto oscene le sue opere, in cui le protagoniste vengono «punite» durante scene di sesso molto esplicite: «Vuol sapere che cosa è osceno? Le correzioni di Franzen. Quelle parti in cui descrive la degenerazione del corpo, la vecchiaia, la malattia, gli odori». In questo il nuovo secolo ha cambiato il senso del pudore. Non conta sia nudo, pornografico, volgare: purché inodore, giovane e immortale, può andare in scena.
Ma a centocinquant’anni dai processi a Baudelaire e a Flaubert, poco sembra cambiato: non il concetto di osceno, né quello di trasgressione, almeno non nei tratti salienti della morale popolare. Elisabeth Ladenson - professore di letteratura francese e comparata alla Columbia University - ha tentato di comprendere come, in un secolo e mezzo, ciò che veniva considerato osceno abbia potuto trasformarsi in classico immortale. L’arte, si chiede la Ladenson, è ancora filtro all’osceno? Sopravvivono argomenti che possano dirsi osceni e perciò indicibili in un’opera che vada considerata artistica? Domande tornate d’attualità in un momento in cui congetturare intorno ai limiti e alla morale pare divenuto inevitabile, a partire dalle piccole cose. Così è nato Dirt for Art’s Sake, il saggio firmato dalla Ladenson e appena uscito negli Stati Uniti (Cornell University Press, pagg. 304, $ 29.95). Tra l'altro vi si mettono a confronto proprio le due opere citate: Madame Bovary, che scampò alla censura, e le poesie di Baudelaire, ripubblicate quattro anni dopo in forma «epurata». Tuttavia è proprio I fiori del male che secondo la saggista americana oggi si trova a mal partito se confrontato con un’idea di male universale: un secolo dopo, infatti, l’idea che quel giocattolo diabolico di cui Baudelaire si servì per épater les bourgeois potesse rappresentare un credo estetico appare infantile, tanto che la Ladenson non esita ad appioppare al poeta francese l’appellativo ironico di «fiorista del male».
A dimostrazione dei suoi intenti di attualizzazione del concetto di oscenità, la Ladenson è partita, per la compilazione del suo personale processo all’osceno, da una banalità del quotidiano. Ha scoperto un giorno, per caso, che il suo programma di posta elettronica Eudora era dotato di un’opzione chiamata Moodwatch, destinata a «ripulire» le email in partenza da eventuali espressioni indecenti. Una forma di censura ipertecnologica di cui la studiosa si è applicata a stabilire i criteri, scoprendo che la maggior parte di essi risalivano alle stesse classificazioni di oscenità che diedero vita ai processi in cui furono coinvolte opere che oggi consideriamo senza tema di smentita capolavori letterari imperituri. Da qui l’urgenza di capire se in letteratura il senso del pudore abbia appunto ancora un senso.
Il percorso della studiosa inizia con Madame Bovary e termina con Fanny Hill, scritto nel XVIII secolo e messo sotto processo negli Stati Uniti nel 1966. Lungo la strada, si sofferma su Ulisse, Il pozzo della solitudine, L'amante di Lady Chatterley, Tropico del Cancro, Lolita e alcuni lavori del Marchese De Sade. Secondo l’autrice sono due le idee che tra Ottocento e Novecento sono passate da pura eresia a truismo e poi ad argomentazione difensiva per le opere accusate di oscenità: «l’arte per l’arte», ovvero il fatto che un’opera d'arte vada considerata tale indipendentemente dal tasso di oscenità presente nelle sue pagine, e il realismo, che la Ladenson identifica con l’espressione che dà il titolo al suo libro: «l'osceno per l’arte», ovvero la licenza di descrivere in un’opera tutti gli aspetti della vita, compresi i più sordidi e sgradevoli.
Utilizzando i verbali dei processi, gli epistolari, gli articoli dei giornali dell’epoca e la letteratura sull’argomento, la Ladenson traccia la parabola del concetto di oscenità, per censura e per appetito, concentrandosi su adulterio, omosessualità e pedofilia. Parte interessante del lavoro è quella costituita dall’analisi dei più recenti adattamenti cinematografici delle opere di cui parla il volume, dalle Lolita di Stanley Kubrick e Adrian Lyne alla Madame Bovary di Vincente Minnelli fino ai film tratti dai racconti di De Sade e dalla sua biografia: secondo la studiosa anche questi adattamenti sono «vittime» dei medesimi processi di censura operati nei secoli scorsi e molto spesso «ereditati inconsciamente».
Perché allora ci pare che di questi tempi tutto venga accettato e la morale sconfitta? Perché la diffusione mediatica ripulisce la rappresentazione oscena del contenuto viscerale e in qualche modo la «estetizza», scollegandola dal reale, allo stesso modo in cui agisce con la violenza. La virtualità insomma, «purifica» l’osceno proprio da quel che lo caratterizza ancora come tale: gli odori, gli umori, il muco. A questo proposito, risulta illuminante il capitolo del saggio dedicato all’Ulisse di Joyce, in cui l’autrice colleziona una serie di giudizi strepitosi, che mettono a confronto l’«erotico» e l’«escretorio», confronto da cui risulta che è il secondo a rendere il primo insopportabile e volgare e che se al sesso si dà una ripulita sensoriale, ecco che ne risulta sopportabile, anzi pienamente godibile, la sua eventuale sporcizia morale. L’oscenità letteraria risiede, secondo la Ladenson, non tanto nelle scene erotiche, quanto nella fisicità dei dettagli. Una fisicità tanto più spinta in quanto non drammatica, non violenta e non legata alla morte e perciò amorale. Il sesso è anche muco: è questa la minaccia, perché introduce in letteratura il principio per cui la sgradevole banalità del quotidiano diviene «epica degradata», come scrisse Martin Amis.
Tempo fa, l’ultraottantenne Edith Templeton, una delle scrittrici messe all’indice negli anni Sessanta in mezza Europa e negli Stati Uniti per il suo romanzo di esplicito erotismo sadomaso Gordon (Neri Pozza), mi disse che non considerava affatto oscene le sue opere, in cui le protagoniste vengono «punite» durante scene di sesso molto esplicite: «Vuol sapere che cosa è osceno? Le correzioni di Franzen. Quelle parti in cui descrive la degenerazione del corpo, la vecchiaia, la malattia, gli odori». In questo il nuovo secolo ha cambiato il senso del pudore. Non conta sia nudo, pornografico, volgare: purché inodore, giovane e immortale, può andare in scena.
«Il Giornale» del 3 aprile 2007
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