di Giuseppe Cantarano
È lo stupore, la meraviglia (thauma, in greco) per la presenza del mondo ad animare, sin dalle sue origini presocratiche, il pensiero filosofico. La meraviglia, lo stupore di fronte all’essere. Di fronte allo straripante flusso della vita, all’esplosione incessante della natura. I primi filosofi, a partire da Talete, sono sedotti dal travolgente fascino della natura, sull’enigmatica, sfuggente bellezza della natura esercitano la gioia del loro pensiero.
Come si può esser tristi, infatti, contemplando un cielo stellato? Come si può esser malinconici, osservando il germogliare di un pesco? Come ci si può sentire infelici, ascoltando il cinguettio di un passero? E di fronte a un bambino che succhia soddisfatto il latte dal seno della madre, come si può provare dolore? Eppure, quando si ammira la vita, quando soprattutto si riflette su di essa, non è il sentimento di gioia a prevalere. Prevale la tristezza, la malinconia, il dolore, l’infelicità, la depressione. L’intera storia della filosofia, tranne qualche rarissima eccezione, ce lo conferma. E possono confermarcelo la poesia, la musica, l’arte in generale.
Ce lo conferma, a suo modo, anche il recente libro di George Steiner, Dieci (possibili) ragioni della tristezza del pensiero (Garzanti, pagg. 87, euro 11). Il quale, prendendo in prestito le parole di Schelling, sostiene che all’esistenza umana è connaturata una inevitabile, profonda tristezza. Per questo il «pensiero è rigorosamente inseparabile da una melanconia profonda, indistruttibile». Ma perché la riflessione sulla vita è sempre accompagnata da un timbro malinconico? Perché il pensiero umano non dovrebbe essere, invece, gioia? Perché siamo stati creati «rattristati», risponde Steiner. E la nostra tristitia dipende dal fatto che, in quanto creature, siamo esseri imperfetti, fragili, mancanti, finiti, mortali: «Il pensiero più ispirato - scrive Steiner - è impotente di fronte alla morte». È questa impotenza a generare in noi angoscia, dolore. A generare in noi una cupa e inconsolabile tristezza.
E la tristezza - prosegue Steiner - ci invade quando sperimentiamo le «correlazioni fallite tra il pensiero e la sua realizzazione». Perché ciò che mettiamo in atto nelle nostre azioni è sempre inadeguato rispetto a ciò che abbiamo pensato di fare. Perfino nell’erotismo la tristezza prevale sulla gioia, sul godimento, ci ricorda Steiner: «La famosa tristezza post-coiutum, la sigaretta tanto attesa dopo l’orgasmo, misurano con precisione il vuoto tra l’anticipazione e la sostanza, tra l’immagine fantasticata e l’avvenimento empirico. L’eros umano è parente stretto di una tristezza mortale».
È vero: se guardiamo e pensiamo la nostra vita dalla prospettiva dell’assoluto, della perfezione, la sentenza di Sileno - «meglio per noi non esser mai nati» - appare difficilmente confutabile. Se, invece, la guardiamo e la pensiamo a partire dal tempo che scorre, dalla sua fragilità, dalla sua finitudine e imperfezione, non ci resta che coglierne, con gioia, ogni suo palpito. Non fosse altro perché, ogni suo gioioso e fugace palpito, ogni suo gioioso ed effimero respiro, verranno cancellati per sempre dalla morte.
Come si può esser tristi, infatti, contemplando un cielo stellato? Come si può esser malinconici, osservando il germogliare di un pesco? Come ci si può sentire infelici, ascoltando il cinguettio di un passero? E di fronte a un bambino che succhia soddisfatto il latte dal seno della madre, come si può provare dolore? Eppure, quando si ammira la vita, quando soprattutto si riflette su di essa, non è il sentimento di gioia a prevalere. Prevale la tristezza, la malinconia, il dolore, l’infelicità, la depressione. L’intera storia della filosofia, tranne qualche rarissima eccezione, ce lo conferma. E possono confermarcelo la poesia, la musica, l’arte in generale.
Ce lo conferma, a suo modo, anche il recente libro di George Steiner, Dieci (possibili) ragioni della tristezza del pensiero (Garzanti, pagg. 87, euro 11). Il quale, prendendo in prestito le parole di Schelling, sostiene che all’esistenza umana è connaturata una inevitabile, profonda tristezza. Per questo il «pensiero è rigorosamente inseparabile da una melanconia profonda, indistruttibile». Ma perché la riflessione sulla vita è sempre accompagnata da un timbro malinconico? Perché il pensiero umano non dovrebbe essere, invece, gioia? Perché siamo stati creati «rattristati», risponde Steiner. E la nostra tristitia dipende dal fatto che, in quanto creature, siamo esseri imperfetti, fragili, mancanti, finiti, mortali: «Il pensiero più ispirato - scrive Steiner - è impotente di fronte alla morte». È questa impotenza a generare in noi angoscia, dolore. A generare in noi una cupa e inconsolabile tristezza.
E la tristezza - prosegue Steiner - ci invade quando sperimentiamo le «correlazioni fallite tra il pensiero e la sua realizzazione». Perché ciò che mettiamo in atto nelle nostre azioni è sempre inadeguato rispetto a ciò che abbiamo pensato di fare. Perfino nell’erotismo la tristezza prevale sulla gioia, sul godimento, ci ricorda Steiner: «La famosa tristezza post-coiutum, la sigaretta tanto attesa dopo l’orgasmo, misurano con precisione il vuoto tra l’anticipazione e la sostanza, tra l’immagine fantasticata e l’avvenimento empirico. L’eros umano è parente stretto di una tristezza mortale».
È vero: se guardiamo e pensiamo la nostra vita dalla prospettiva dell’assoluto, della perfezione, la sentenza di Sileno - «meglio per noi non esser mai nati» - appare difficilmente confutabile. Se, invece, la guardiamo e la pensiamo a partire dal tempo che scorre, dalla sua fragilità, dalla sua finitudine e imperfezione, non ci resta che coglierne, con gioia, ogni suo palpito. Non fosse altro perché, ogni suo gioioso e fugace palpito, ogni suo gioioso ed effimero respiro, verranno cancellati per sempre dalla morte.
«Il Giornale» del 4 aprile 2007
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