A 70 anni dal bombardamento della cittadina basca avvenuto il 26 aprile del ’37, la discussione è ancora aperta E le polemiche anche
di Giordano Bruno Guerri
«Arte e libertà, come il fuoco
di Prometeo, sono cose che uno
deve rubare perché siano usate contro l’ordine prestabilito».
Pablo Picasso
Guernica, cittadina basca a trenta chilometri da Bilbao, sarebbe solo un nome fra i tanti sulle carte geografiche, se due eventi non ne avessero fatto uno dei toponimi più celebri del XX secolo. Del primo, tragico, ricorre in questi giorni il settantesimo anniversario: il 26 aprile 1937, in piena guerra civile spagnola, aerei della Legione Condor hitleriana, appoggiati da apparecchi italiani, sottoposero la città a quello che viene ricordato come il primo bombardamento a tappeto della storia. Il secondo, ben più noto evento, è il grande dipinto omonimo creato in quello stesso anno da Pablo Picasso, di certo l’opera pittorica più famosa del Novecento. Su entrambi, pur così vicini a noi, gravano tuttavia dubbi, imprecisioni e leggende.
Anzitutto, quello di Guernica non fu il primo bombardamento teso a terrorizzare il nemico con la distruzione di una città inerme e militarmente ininfluente: altri ce n’erano stati, nelle guerre coloniali, in Africa e in Asia, come dimostra il saggio di Sven Lindqvist Sei morto! Il secolo delle bombe (Ponte alle Grazie). Ma è vero che quella fu la prima operazione del genere fatta da europei contro altri europei. Neanche sul numero delle vittime c’è accordo. Il calcolo delle morti va da un minimo di 300 a un massimo di 2000, ma la cifra più verosimile è 1600. La vicenda verrà ricordata giovedì prossimo, 26 aprile, alle 22, da una trasmissione di History Channel, Guernica - La morte dal cielo, che non sarà una semplice commemorazione ma presenterà due filmati inediti: uno di propaganda franchista, che assurdamente attribuisce ogni responsabilità della distruzione ai comunisti in ritirata; l’altro è una ripresa del bombardamento fatta dagli stessi tedeschi; alla fine della Seconda guerra mondiale il filmato fu requisito dai russi, che lo dimenticarono in un magazzino senza rendersi conto della sua importanza. La trasmissione farà anche maggior luce sulla partecipazione dell’aviazione italiana, presente all’operazione con tre bombardieri Savoia-79 e due squadriglie di caccia.
Incertezze e leggende corrono anche a proposito del grande quadro (3,51x7,82 metri) di Picasso. Pare che in origine l’opera fosse concepita per commemorare la morte di un famoso torero, e si intitolasse En muerte del torero Joselito. Secondo alcuni (piuttosto detrattori che studiosi) quando il governo repubblicano spagnolo chiese a Picasso un dipinto sulla guerra civile in corso, per l’Esposizione Mondiale che si teneva a Parigi in quello stesso anno, il pittore si sarebbe limitato a aggiungere una colomba sulla tela. In effetti, in Guernica niente raffigura un bombardamento, ma è indubbio che la sua apocalittica drammaticità richiami, molto più della morte di un torero, gli orrori della guerra. A chi gli obiettava che il bombardamento si svolse in pieno giorno, mentre l’opera è avvolta nella tenebra della notte, Picasso rispose: «La luce sono io: io rischiarerò la notte fonda dell’uomo e la mia».
Come capita a tutte le opere di grande fama e forte carico simbolico, anche per il dipinto Guernica legioni di esegeti vi hanno individuato decine di simboli variamente interpretati: per esempio, la lampada a olio posta al centro del quadro rappresenterebbe il regresso della società mondiale, inerte di fronte al bombardamento. L’unica simbologia certa, in realtà, è stata spiegata un giorno dallo stesso Picasso: «Il toro non è il fascismo. È la brutalità e la tenebra. Il cavallo rappresenta il popolo». Altrettanto certo è che Guernica è la migliore dimostrazione della teoria di Picasso per cui la pittura non è fatta per decorare gli appartamenti, ma è «uno strumento di guerra offensiva e difensiva contro il nemico».
Il risultato, in questo senso, fu raggiunto in pieno. Il dipinto venne comprato per 150mila franchi dal governo repubblicano spagnolo. Ma, essendo Francisco Franco il vincitore della guerra, l’opera iniziò una lunga peregrinazione di propaganda antifranchista prima in Europa e poi negli Stati Uniti, dove si trovava allo scoppio della Seconda guerra mondiale. (Un’accurata ricostruzione della storia di questa icona del Novecento è nel recente saggio di Gijs van Hensbergen, Guernica, pubblicato dal Saggiatore.) Lo stesso Franco chiese più volte la restituzione dell’opera alla Spagna, con un gesto di distensione e libertà culturale che probabilmente aveva solo motivi propagandistici e mirava anche a sottrarre ai baschi un’opera simbolo della loro indipendenza e della loro storia. Ma Picasso in persona stabilì, con il direttore del Moma di New York, che l’immensa tela rimanesse lì finché in Spagna non fosse stata restaurata la democrazia repubblicana.
Picasso, notoriamente comunista (tanto da non avere mai potuto ottenere il visto per entrare negli Stati Uniti) non era però ben visto dalle autorità americane e il direttore del museo dovette togliere dalla didascalia ogni riferimento alla guerra civile per poter continuare a esporre il quadro. Solo nel 1981 l’avvocato incaricato dal pittore di occuparsi di Guernica dopo la sua morte, stabilì che la Spagna, benché monarchica, era democraticamente abbastanza matura da meritare il ritorno dell’opera.
Le polemiche, tuttavia, non cessarono. Picasso avrebbe voluto che la tela fosse esposta al Prado, ma al Prado non è mai stata. Fu prima collocata al Cason del Buen Retiro, poi nel 1992 il Prado spostò tutte le opere del Novecento nel vicino Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofia, dove venne costruita un’apposita galleria a prova di bazooka per ospitare il capolavoro. E si trova ancora lì, nonostante i baschi l’abbiano rivendicata più volte, soprattutto dopo la costruzione dello stupendo Guggenheim Museum di Bilbao, nel 1997. L’ultima polemica è recentissima: l’opera non è stata concessa in prestito al Guggenheim neppure per il settantesimo anniversario del bombardamento. Zapatero in persona si è opposto, con l’appoggio dei conservatori del Reina Sofia, secondo i quali l’opera ha già subìto troppi spostamenti e restauri maldestri, per poter viaggiare ancora. Potenza dell’arte, in questo settantesimo anniversario si parlerà più del capolavoro che del bombardamento che lo ha ispirato.
di Prometeo, sono cose che uno
deve rubare perché siano usate contro l’ordine prestabilito».
Pablo Picasso
Guernica, cittadina basca a trenta chilometri da Bilbao, sarebbe solo un nome fra i tanti sulle carte geografiche, se due eventi non ne avessero fatto uno dei toponimi più celebri del XX secolo. Del primo, tragico, ricorre in questi giorni il settantesimo anniversario: il 26 aprile 1937, in piena guerra civile spagnola, aerei della Legione Condor hitleriana, appoggiati da apparecchi italiani, sottoposero la città a quello che viene ricordato come il primo bombardamento a tappeto della storia. Il secondo, ben più noto evento, è il grande dipinto omonimo creato in quello stesso anno da Pablo Picasso, di certo l’opera pittorica più famosa del Novecento. Su entrambi, pur così vicini a noi, gravano tuttavia dubbi, imprecisioni e leggende.
Anzitutto, quello di Guernica non fu il primo bombardamento teso a terrorizzare il nemico con la distruzione di una città inerme e militarmente ininfluente: altri ce n’erano stati, nelle guerre coloniali, in Africa e in Asia, come dimostra il saggio di Sven Lindqvist Sei morto! Il secolo delle bombe (Ponte alle Grazie). Ma è vero che quella fu la prima operazione del genere fatta da europei contro altri europei. Neanche sul numero delle vittime c’è accordo. Il calcolo delle morti va da un minimo di 300 a un massimo di 2000, ma la cifra più verosimile è 1600. La vicenda verrà ricordata giovedì prossimo, 26 aprile, alle 22, da una trasmissione di History Channel, Guernica - La morte dal cielo, che non sarà una semplice commemorazione ma presenterà due filmati inediti: uno di propaganda franchista, che assurdamente attribuisce ogni responsabilità della distruzione ai comunisti in ritirata; l’altro è una ripresa del bombardamento fatta dagli stessi tedeschi; alla fine della Seconda guerra mondiale il filmato fu requisito dai russi, che lo dimenticarono in un magazzino senza rendersi conto della sua importanza. La trasmissione farà anche maggior luce sulla partecipazione dell’aviazione italiana, presente all’operazione con tre bombardieri Savoia-79 e due squadriglie di caccia.
Incertezze e leggende corrono anche a proposito del grande quadro (3,51x7,82 metri) di Picasso. Pare che in origine l’opera fosse concepita per commemorare la morte di un famoso torero, e si intitolasse En muerte del torero Joselito. Secondo alcuni (piuttosto detrattori che studiosi) quando il governo repubblicano spagnolo chiese a Picasso un dipinto sulla guerra civile in corso, per l’Esposizione Mondiale che si teneva a Parigi in quello stesso anno, il pittore si sarebbe limitato a aggiungere una colomba sulla tela. In effetti, in Guernica niente raffigura un bombardamento, ma è indubbio che la sua apocalittica drammaticità richiami, molto più della morte di un torero, gli orrori della guerra. A chi gli obiettava che il bombardamento si svolse in pieno giorno, mentre l’opera è avvolta nella tenebra della notte, Picasso rispose: «La luce sono io: io rischiarerò la notte fonda dell’uomo e la mia».
Come capita a tutte le opere di grande fama e forte carico simbolico, anche per il dipinto Guernica legioni di esegeti vi hanno individuato decine di simboli variamente interpretati: per esempio, la lampada a olio posta al centro del quadro rappresenterebbe il regresso della società mondiale, inerte di fronte al bombardamento. L’unica simbologia certa, in realtà, è stata spiegata un giorno dallo stesso Picasso: «Il toro non è il fascismo. È la brutalità e la tenebra. Il cavallo rappresenta il popolo». Altrettanto certo è che Guernica è la migliore dimostrazione della teoria di Picasso per cui la pittura non è fatta per decorare gli appartamenti, ma è «uno strumento di guerra offensiva e difensiva contro il nemico».
Il risultato, in questo senso, fu raggiunto in pieno. Il dipinto venne comprato per 150mila franchi dal governo repubblicano spagnolo. Ma, essendo Francisco Franco il vincitore della guerra, l’opera iniziò una lunga peregrinazione di propaganda antifranchista prima in Europa e poi negli Stati Uniti, dove si trovava allo scoppio della Seconda guerra mondiale. (Un’accurata ricostruzione della storia di questa icona del Novecento è nel recente saggio di Gijs van Hensbergen, Guernica, pubblicato dal Saggiatore.) Lo stesso Franco chiese più volte la restituzione dell’opera alla Spagna, con un gesto di distensione e libertà culturale che probabilmente aveva solo motivi propagandistici e mirava anche a sottrarre ai baschi un’opera simbolo della loro indipendenza e della loro storia. Ma Picasso in persona stabilì, con il direttore del Moma di New York, che l’immensa tela rimanesse lì finché in Spagna non fosse stata restaurata la democrazia repubblicana.
Picasso, notoriamente comunista (tanto da non avere mai potuto ottenere il visto per entrare negli Stati Uniti) non era però ben visto dalle autorità americane e il direttore del museo dovette togliere dalla didascalia ogni riferimento alla guerra civile per poter continuare a esporre il quadro. Solo nel 1981 l’avvocato incaricato dal pittore di occuparsi di Guernica dopo la sua morte, stabilì che la Spagna, benché monarchica, era democraticamente abbastanza matura da meritare il ritorno dell’opera.
Le polemiche, tuttavia, non cessarono. Picasso avrebbe voluto che la tela fosse esposta al Prado, ma al Prado non è mai stata. Fu prima collocata al Cason del Buen Retiro, poi nel 1992 il Prado spostò tutte le opere del Novecento nel vicino Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofia, dove venne costruita un’apposita galleria a prova di bazooka per ospitare il capolavoro. E si trova ancora lì, nonostante i baschi l’abbiano rivendicata più volte, soprattutto dopo la costruzione dello stupendo Guggenheim Museum di Bilbao, nel 1997. L’ultima polemica è recentissima: l’opera non è stata concessa in prestito al Guggenheim neppure per il settantesimo anniversario del bombardamento. Zapatero in persona si è opposto, con l’appoggio dei conservatori del Reina Sofia, secondo i quali l’opera ha già subìto troppi spostamenti e restauri maldestri, per poter viaggiare ancora. Potenza dell’arte, in questo settantesimo anniversario si parlerà più del capolavoro che del bombardamento che lo ha ispirato.
«Il Giornale» del 21 aprile 2007
Nessun commento:
Posta un commento