L’opera rivolta ai politici di un intellettuale di spicco nella Firenze medioevale
di Giuseppe Bernardi
Un bestseller medievale, da render alacri i copisti degli scriptoria di mezza Italia e i miniaturisti di maggior vaglia, il Tresor di Brunetto Latini. Cos’è un «tesoro»? È lo scrigno dove tenere i gioielli. Perché dunque non riporvi i beni spirituali più preziosi: la filosofia retorica, che è denaro contante; la filosofia pratica e la logica, che sono pietre preziose; la retorica e la politica, che sono oro fino? Esempi di tali scrigni, molto diversi tra loro, circolavano negli studia medievali, come il provenzale e modesto Tesaur di Peire de Corbian, o l’Imago mundi di Onorio d’Autun, o ancora, più vicino a Brunetto, e forse suo modello, lo Speculum di Vincenzo di Beauvais.
Ma il Tresor, composto da colui che Dante volle riconoscere come suo maestro, questa grandiosa opera compilatoria, forse anche «modesta e ambiziosa nello stesso tempo» (Cesare Segre) proprio per il rispettoso e attento controllo di citazioni e fonti, per il rigoroso disegno dell’insieme - e certo la prima enciclopedia volgare in senso proprio - costituì un punto fermo nella cultura del tempo, ne registrò il patrimonio di conoscenze accumulato fino ad allora, nonché tutti gli umori e gli stimoli, ne fece un bilancio e un regesto.
Brunetto Latini fu, per così dire, un intellettuale organico, e una figura di spicco nella vita culturale fiorentina della seconda metà del Duecento. Il suo Tresor, di cui esce ora un’impeccabile edizione con testo a fronte, a cura di un gruppo di studiosi, Pietro G. Beltrami, Paolo Squillacioti, Plinio Torri e Sergio Vatteroni (Einaudi, pagg. LIX+890, euro 85), Brunetto lo intese come il deposito, scientificamente ordinato, di tutto ciò che il laico colto poteva e forse doveva conoscere: in esso egli compendia la storia universale dalla creazione del mondo ai tempi suoi; raccoglie nozioni di fisica, geografia e astronomia; descrive, con vere schede, aspetto e carattere di un centinaio almeno di animali nostrani ed esotici, dall’ippopotamo alle formiche, dalla scimmia all’oca, all’asino e alla tigre; riassume l’Etica Nicomachea di Aristotele, con tutte le sue categorie di vita pratica e morale; s’immedesima in Cicerone, dissertando di retorica e delle qualità politiche utili alla buona amministrazione delle città italiane.
In effetti, i destinatari ideali dell’opera erano tutti quelli che nell’Italia comunale del Duecento gestivano professionalmente i vari incarichi pubblici, e in particolare i podestà, che i comuni assumevano a tempo, chiamandoli da fuori, perché non avessero parte nelle beghe e nelle consorterie locali. Ma era anche rivolta, nell’intento didattico e vorremmo dire politico-culturale di Brunetto Latini, a tutti quegli esponenti o sconosciuti membri della società laica, a livello anche sovranazionale, che erano aperti o ricettivi a una nuova coscienza culturale, peraltro ancora interamente calata nell’universo medievale. Quanto alla scelta di scrivere in francese, e non in latino, che restava lingua tradizionalmente elettiva della cultura alta e claustrale, ciò dipese dal fatto che la lingua volgare di maggiore circolazione allora in Europa era appunto il francese.
Giovanni Villani, nella Nuova cronica scritta nei primi decenni del Trecento, avrebbe ricordato Brunetto Latini come un gran filosofo e sommo maestro di rettorica, dove la doppia «t» non era una semplice variante di retorica, ma il segno di una sovrapposizione, insieme concettuale e pratica, tra la figura del rétore, di colui che sa pronunciare discorsi persuasivi o stendere epistole esemplari, e quella del rettore, di colui che regge e governa la cosa pubblica.
Brunetto, nato intorno al 1220, non era in realtà né filosofo, né letterato di professione, ma notaio, funzionario pubblico e uomo politico, arrivato alle più alte cariche del Comune, fino al priorato nel 1287. Nel 1260 godeva già di sufficiente prestigio perché gli venisse affidata un’ambasceria, delicata e vana, presso Alfonso X di Castiglia, per perorare la causa dei guelfi fiorentini contro Manfredi.
Mentre tornava dall’inutile ambasceria, la sconfitta dei guelfi a Montaperti lo indusse a dirottare il viaggio, e a un volontario esilio in Francia. Questa svolta aprì il periodo più importante per la sua attività letteraria. Fra il 1260 e forse tutto il ’66, visse a Parigi e ad Arras facendo il notaio nell’ambiente dei mercanti e dei finanzieri fiorentini, e soprattutto compilò il Tresor, prima di tornare a Firenze divenuta di nuovo guelfa, e dove sarebbe morto nel 1293 al culmine della sua carriera.
Resta la faccenda scabra, problema irrisolto ancorché irrilevante, della presunta sodomia. Dante, nel canto XV dell’Inferno lo mette nella trista «greggia» dei violenti contro Dio nella natura. «Siete voi qui, ser Brunetto?», dice Dante rivolgendosi a «la cara e buona imagine paterna / di voi quando nel mondo ad ora ad ora / m’insegnavate come l’uom s’etterna». Stridente e forse incomprensibile, nonostante tutte le interpretazioni che ne sono state date, è il contrasto tra l’alta figura morale che, con affetto, Dante ci presenta in Brunetto, e la denuncia di quella che Dante stesso e la cultura dell’epoca ritenevano una colpa infamante. Così, c’è chi tenta una interpretazione iperbolicamente allegorica, la colpa essendo così il tradimento della «bestemmiata» lingua materna, cioè per aver scritto in lingua non naturale e propria; e chi, tirando fuori la canzone brunettiana S’eo son distretto inamoratamente, ha inteso riconoscervi, invece che un lamento d’esilio, un canto d’amore rivolto a un tal Bondie Dietaiuti.
Certo, è buffo che non esistano testimonianze, se non nella parola di Dante, e poi solo nelle speculazioni suscitate dai suoi versi, di un’infamia che nasce e forse muore nell’Inferno.
Ma il Tresor, composto da colui che Dante volle riconoscere come suo maestro, questa grandiosa opera compilatoria, forse anche «modesta e ambiziosa nello stesso tempo» (Cesare Segre) proprio per il rispettoso e attento controllo di citazioni e fonti, per il rigoroso disegno dell’insieme - e certo la prima enciclopedia volgare in senso proprio - costituì un punto fermo nella cultura del tempo, ne registrò il patrimonio di conoscenze accumulato fino ad allora, nonché tutti gli umori e gli stimoli, ne fece un bilancio e un regesto.
Brunetto Latini fu, per così dire, un intellettuale organico, e una figura di spicco nella vita culturale fiorentina della seconda metà del Duecento. Il suo Tresor, di cui esce ora un’impeccabile edizione con testo a fronte, a cura di un gruppo di studiosi, Pietro G. Beltrami, Paolo Squillacioti, Plinio Torri e Sergio Vatteroni (Einaudi, pagg. LIX+890, euro 85), Brunetto lo intese come il deposito, scientificamente ordinato, di tutto ciò che il laico colto poteva e forse doveva conoscere: in esso egli compendia la storia universale dalla creazione del mondo ai tempi suoi; raccoglie nozioni di fisica, geografia e astronomia; descrive, con vere schede, aspetto e carattere di un centinaio almeno di animali nostrani ed esotici, dall’ippopotamo alle formiche, dalla scimmia all’oca, all’asino e alla tigre; riassume l’Etica Nicomachea di Aristotele, con tutte le sue categorie di vita pratica e morale; s’immedesima in Cicerone, dissertando di retorica e delle qualità politiche utili alla buona amministrazione delle città italiane.
In effetti, i destinatari ideali dell’opera erano tutti quelli che nell’Italia comunale del Duecento gestivano professionalmente i vari incarichi pubblici, e in particolare i podestà, che i comuni assumevano a tempo, chiamandoli da fuori, perché non avessero parte nelle beghe e nelle consorterie locali. Ma era anche rivolta, nell’intento didattico e vorremmo dire politico-culturale di Brunetto Latini, a tutti quegli esponenti o sconosciuti membri della società laica, a livello anche sovranazionale, che erano aperti o ricettivi a una nuova coscienza culturale, peraltro ancora interamente calata nell’universo medievale. Quanto alla scelta di scrivere in francese, e non in latino, che restava lingua tradizionalmente elettiva della cultura alta e claustrale, ciò dipese dal fatto che la lingua volgare di maggiore circolazione allora in Europa era appunto il francese.
Giovanni Villani, nella Nuova cronica scritta nei primi decenni del Trecento, avrebbe ricordato Brunetto Latini come un gran filosofo e sommo maestro di rettorica, dove la doppia «t» non era una semplice variante di retorica, ma il segno di una sovrapposizione, insieme concettuale e pratica, tra la figura del rétore, di colui che sa pronunciare discorsi persuasivi o stendere epistole esemplari, e quella del rettore, di colui che regge e governa la cosa pubblica.
Brunetto, nato intorno al 1220, non era in realtà né filosofo, né letterato di professione, ma notaio, funzionario pubblico e uomo politico, arrivato alle più alte cariche del Comune, fino al priorato nel 1287. Nel 1260 godeva già di sufficiente prestigio perché gli venisse affidata un’ambasceria, delicata e vana, presso Alfonso X di Castiglia, per perorare la causa dei guelfi fiorentini contro Manfredi.
Mentre tornava dall’inutile ambasceria, la sconfitta dei guelfi a Montaperti lo indusse a dirottare il viaggio, e a un volontario esilio in Francia. Questa svolta aprì il periodo più importante per la sua attività letteraria. Fra il 1260 e forse tutto il ’66, visse a Parigi e ad Arras facendo il notaio nell’ambiente dei mercanti e dei finanzieri fiorentini, e soprattutto compilò il Tresor, prima di tornare a Firenze divenuta di nuovo guelfa, e dove sarebbe morto nel 1293 al culmine della sua carriera.
Resta la faccenda scabra, problema irrisolto ancorché irrilevante, della presunta sodomia. Dante, nel canto XV dell’Inferno lo mette nella trista «greggia» dei violenti contro Dio nella natura. «Siete voi qui, ser Brunetto?», dice Dante rivolgendosi a «la cara e buona imagine paterna / di voi quando nel mondo ad ora ad ora / m’insegnavate come l’uom s’etterna». Stridente e forse incomprensibile, nonostante tutte le interpretazioni che ne sono state date, è il contrasto tra l’alta figura morale che, con affetto, Dante ci presenta in Brunetto, e la denuncia di quella che Dante stesso e la cultura dell’epoca ritenevano una colpa infamante. Così, c’è chi tenta una interpretazione iperbolicamente allegorica, la colpa essendo così il tradimento della «bestemmiata» lingua materna, cioè per aver scritto in lingua non naturale e propria; e chi, tirando fuori la canzone brunettiana S’eo son distretto inamoratamente, ha inteso riconoscervi, invece che un lamento d’esilio, un canto d’amore rivolto a un tal Bondie Dietaiuti.
Certo, è buffo che non esistano testimonianze, se non nella parola di Dante, e poi solo nelle speculazioni suscitate dai suoi versi, di un’infamia che nasce e forse muore nell’Inferno.
«Il Giornale» del 24 aprile 2007
Nessun commento:
Posta un commento