L’ultimo scandalo aveva fatto sperare in un risanamento radicale nel mondo degli stadi. Invece è cambiato ben poco, l’intrallazzo la vince sullo sport. L’analisi del telecronista Pizzul
di Bruno Pizzul
«Dopo le prime intercettazioni scoppiò l'unanime sdegno e si invocò da tutti massimo rigore; parvero superate le divisioni del tifo, con la netta prevalenza di un severo giustizialismo» «Il contorno domina: si dimentica l'analisi delle partite e si litiga sulle decisioni degli arbitri o sul labiale dei giocatori, con alti tassi di maleducazione. Il football prende i malanni della società in cui vive»
Lo scandalo clamoroso che ha squassato il calcio italiano può ben essere proposto come riferimento paradigmatico adatto a spiegare diffuse abitudini e mentalità. La vicenda, tanto per cominciare, è stata chiamata «calciopoli», in linea con la stucchevole tendenza a individuare attraverso il suffisso «...poli» tutto ciò che di losco e poco chiaro è capitato dopo «tangentopoli». Per sfuggire al sospetto di scarsa fantasia, sono state utilizzate alcune varianti sul tipo di «moggiopoli», «juventopoli» e consimili. A dimostrazione che la moderna comunicazione è inesorabilmente inflazionata da slogan e luoghi comuni. Molto interessante anche analizzare le reazioni dell'opinione pubblica, in particolare degli appassionati, nelle varie fasi della complessa faccenda. Quando, attraverso la pubblicazione delle intercettazioni telefoniche trasmesse delle procure agli organi di giustizia sportiva, si cominciò a intuire che c'era del marcio nel sistema, scoppiò unanime sdegno e si invocò da tutti massimo rigore nelle sanzioni, in nome della necessaria pulizia e trasparenza. Tale e tanta fu la scandalizzata reazione che parvero superate le divisioni e antipatie reciproche legate alle varie tribù del tifo. Una condivisa aspirazione a recuperare trasparenza e credibilità con apparente netta prevalenza di orientamento verso un severo giustizialismo. Si arrivò a dire che il campionato di serie A avrebbe dovuto essere sospeso per un anno almeno al fine di consentire una bonifica completa, venne messa in discussione la partecipazione della nazionale ai mondiali tedeschi e in subordine qualcuno chiese che restassero a casa Lippi, Buffon e Cannavaro a vario titolo considerati coinvolti. Inutile dire che la grancassa mediatica si tuffò fin dalle prime battute con grande entusiasmo in argomenti così stuzzicanti: in particolare si prefigurarono sanzioni sportive molto pesanti, venne data per certa o quasi la relegazione della Juventus in serie C, di Milan, Fiorentina e Lazio in B, si compil arono lunghi elenchi di giubilazioni individuali per dirigenti federali, arbitri, amministratori di società. Con la figura di Luciano Moggi ad assumere il ruolo di satanico ideatore e regista del grande inganno. Mentre il bubbone assumeva dimensioni sempre più inquietanti, la nazionale italiana trionfò ai mondiali tedeschi e, manco a dirlo, proprio Lippi, Buffon e Cannavaro risultarono protagonisti assoluti nella gestione del gruppo e in campo. Due giorni di grande festa popolare in tutto il Paese e poi sotto di nuovo con «tangentopoli». Inutile ripercorrere i vari capitoli, basterà ricordare come la stessa composizione degli organi giudicanti creò subito reazioni stizzite per temute contaminazioni ideologiche da parte di qualche notabile incaricato di esperire indagini e preparare imputazioni. Quello che inizialmente era un fronte compatto a chiedere esemplari sanzioni, cominciò a frantumarsi sotto la spinta di interessi legati al tifo di parte, arrivarono decisioni almeno in parte contraddittorie nei vari gradi di giustizia sportiva, si arrivò fino all'arbitrato conclusivo (con probabili patteggiamenti per evitare i ricorsi delle società alla giustizia ordinaria). Il tutto con un progressivo annacquamento delle sanzioni e con il montante malcontento dei tifosi juventini, portati a ritenere che a pagare l'unico conto salato fosse stata solo la loro squadra. Insomma, al solito, in linea generale tutti a chiedere pulizia e rispetto delle regole, poi grandi reazioni e proteste nel momento in cui venivano toccati interessi propri. Ma può essere interessante anche cercar di capire quale sia stata la genesi che ha originato questo ennesimo scandalo del nostro sport più popolare. Il calcio di vertice è fenomeno tipicamente sociale, ha assunto fisionomia del tutto particolare, l'originaria natura sportiva è stata progressivamente contaminata da fattori extra-tecnici, soprattutto legati al denaro. Inevitabile che il movimento abbia finito per essere sporcato da tutto ciò che di poco pulito e trasparente caratterizza la società in cui si manifesta. In particolare è emersa la mentalità per cui, se si vuol vincere e prevalere, non bastano più fattori legati alla bravura sportiva, occorre trovare amici, tessere alleanze più o meno lecite, portare dalla propria parte quelli che contano e possono in qualche modo influenzare i risultati. Ecco allora il pullulare di personaggi capaci di proporsi come astuti e potenti intrallazzatori, abili ad attribuirsi, magari millantando, una sorta di onnipotenza personale nel creare trame sottili, nel condizionare scelte, superando anche i più elementari limiti imposti dalla lealtà sportiva. Se la figura più emblematica e rappresentativa di questa categoria resta Luciano Moggi, non si può certo dire che egli sia stato l'unico a navigare in questa palude maleodorante: anzi, benché sia stato indicato come il principale responsabile di questo guazzabuglio, è corretto dire che lo scandalo vero non è tanto quello che ha architettato Moggi, ma piuttosto il fatto che egli abbia trovato connivenze e aiuti in ambito federale, arbitrale, dirigenziale. Moggi, dopo tutto, ha fatto e tentato di fare quello per il quale era diventato famoso, tanto che tutti volevano assicurarsi i suoi servigi. Ben sapendo che era il re dell'«intrallazzo» e che godeva di amicizie ed entrature importanti. Dicono i tifosi juventini che la loro squadra era così forte che non aveva bisogno di «aiutini» particolari, ed è senz'altro vero. Proprio per questo diventa ancor più discutibile quanto è successo e il fatto che, in qualche misura, sia stato tollerato se non incoraggiato dalla società. Fermo restando che, magari con la scusa di tutelarsi dallo strapotere moggiano, anche rappresentanti di altre società non si sono comportati da agnellini innocenti. Nel mondo dello sport esiste un'intrinseca aspirazione a una propria pulizia morale, tutti avvertono la necessità di recuperare trasparenza e rettitudine di comportamenti: il guaio è che q uando intervengono fattori distorcenti soprattutto economici, finiscono per diventare prevalenti altre urgenze, tutt'altro che consolanti. È amaro constatarlo ed è ancor più amato dover ammettere che, al punto in cui siamo arrivati, è difficile individuare soluzioni che consentano di sperare in una bonifica dell'intero movimento calcistico. Si sperava che «calciopoli» segnasse un punto di partenza, del quale ricostruire un calcio più pulito, più trasparente, più credibile. Per ora sembra cambiato ben poco, anche perché, manovratori occulti a parte, si continua a parlare e scrivere molto delle cose del pallone, e il più delle volte dimenticando l'analisi della partita, che dovrebbe costruire l'elemento centrale, e litigando invece sulle decisioni degli arbitri, sulle soperchierie dei potenti, sulla decifrazione del labiale dei calciatori, sulle dichiarazioni dei protagonisti. Ciascuno, naturalmente, tirando l'acqua al proprio mulino, con un tasso di litigiosità e di maleducazione davvero preoccupanti. Ma è il calcio che si sviluppa in una società della quale ha mutuato i suoi malanni. Non basta per diventare un alibi, basta e avanza per capire quanto siamo bravi a rovinare anche ciò che ci dovrebbe divertire e regalare qualche momento di piacevole svago. E invece va a finire che ci facciamo sangue amaro anche per le cose del pallone, come se non fossimo alle prese con tanti altri problemi e preoccupazioni che fatalmente ci piovono addosso.
«Avvenire» del 28 marzo 2007
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