Pubblicati a cura di Stefano De Luca "I Principi di politica" di Benjamin Constant, nella versione originaria del 1806
di Davide Gianluca Bianchi
Per molto tempo gli studiosi di Benjamin Constant si sono chiesti come fosse possibile che lo scrittore francese, nel solo 1815, riuscisse a pubblicare due opere tanto impegnative come De l’esprit de conquête e Principes de politique. In assenza di altre spiegazioni, si è sempre ipotizzata l’esistenza di un «grande trattato di politica» rimasto inedito, presumibilmente composto fra il 1803 ed il 1806, da cui Constant avrebbe attinto a piene mani dopo la caduta di Napoleone, nella fase più prolifica della sua attività pubblicistica. Nel 1961, quando la Biblioteca nazionale di Francia acquisì i volumi dell'Œuvres Manuscrites, risalenti al 1810, venne finalmente individuato questo «grande trattato», a cui venne dato il titolo di Principes de politique, nella versione del 1806, per distinguere l'opera da quella omonima pubblicata nel 1815 (in italiano stampata da Editori Riuniti negli anni Settanta). Ma in realtà, nonostante il medesimo titolo, si tratta di due lavori decisamente diversi. Sulla spinta degli studi filologici di Etienne Hofmann, basati sulle carte scoperte alla Biblioteca cantonale di Losanna nel 1974, i Princìpi di politica (versione del 1806) vengono ora pubblicati presso l’editore Rubbettino, a cura di Stefano De Luca.
Che dire ancora di Constant, se non che si tratta del maggior pensatore politico dell’età della Restaurazione? Un autore fondamentale nella storia del liberalismo, ma non solo; secondo Tzvetan Todorov è stato nientemeno che l’anello di congiunzione fra Montesquieu e Rousseau, da un lato, e Tocqueville dall’altro, cioè fra le vette della riflessione politica del Settecento e dell’Ottocento.
Come tutti sanno, Constant è noto per aver scritto il Discorso sulla libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni (1819), in cui, per la prima volta, viene chiaramente teorizzata la «libertà negativa», la «libertà da», in una parola, la libertà liberale, caratteristica dei moderni, concettualmente diversa dalla partecipazione democratica, la «libertà positiva», la «liberta di», tipica degli antichi (argomenti che, secondo alcuni critici, Constant avrebbe però «saccheggiato» da Des circostances actuelles di M.me de Staël, di cui era stato l’amante).
Constant era giunto a Parigi nel 1795, non ancora trentenne, nel periodo del Direttorio, a poco più di un anno dal Termidoro che aveva posto fine al Terrore. Pur di salvare i princìpi dell’89, la sua sensibilità lo portava ad essere lontano sia dalle posizioni della sinistra giocobina che da quelle della destra controrivoluzionaria. Si inaugurava così l’interpretazione liberale della Rivoluzione francese, da allora ininterrottamente rivisitata fino a giungere, ai giorni nostri, agli scritti dei vari Marcell Gauchet, Francois Furet, Tzvetan Todorov, Lucine Jaume (dopo che la scuola giacobina e marxista della Sorbona, negli anni Settanta, aveva decretato che Constant e M.me de Staël fossero troppo «termidoriani» per meritare attenzione).
Nei Principes de politique si realizza la maturità intellettuale di Constant, che trova qui la lucidità per argomentare la libertà, e le sue possibilità, tenendola separata dalle forme di governo; in altre parole, in lui il problema non è più la legittimazione di chi governa, ma le modalità con cui viene esercitato il potere, o meglio, i limiti che quest'ultimo incontra nella sua concreta esplicazione. Come aveva insegnato la rivoluzione, infatti il dispotismo è possibile sotto ogni regime, perché si ha quando il potere è assoluto ed illimitato. Ma quali dovrebbero essere allora i limiti del potere? Quelli che Constant chiama i «diritti individuali», argine invalicabile contrapposto all’autorità sociale. Non è sufficiente dire che il cittadino può fare tutto ciò che la legge non vieta, come aveva sostenuto Montesquieu, perché la legge potrebbe impedire tutto, e allora quale libertà rimarrebbe? La libertà di pensiero, la libertà religiosa e le garanzie giudiziarie delle libertà del cittadino non possono mai essere conculcate, neppure da un potere legittimato democraticamente (con buona pace di Jean-Jacques Rousseau).
Come spiega Stefano De Luca nella sua preziosa Introduzione, grazie a Constant abbiamo una distinzione concettuale e politica di capitale importanza, a cui ancora oggi ogni spirito liberale non rinuncia: «Dalle pagine dei Principes emerge infatti per la prima volta, in forma pressoché ideal-tipica, la distinzione tra liberalismo e democrazia pura, con le connesse istanze critiche del primo verso la seconda. Mentre la prospettiva liberale appare animata dall’esigenza di limitare il potere, nella convinzione che un grado eccessivo di autorità (a prescindere da chi la detenga) sia sempre pericoloso, la prospettiva democratica appare mossa dall’esigenza di distribuire il potere in modo eguale, nella convinzione che l’autorità del corpo sociale costituisca una libertas maior che comprende in sé e supera tutte le libertà individuali».
«Il Giornale» del 25 aprile 2007
Che dire ancora di Constant, se non che si tratta del maggior pensatore politico dell’età della Restaurazione? Un autore fondamentale nella storia del liberalismo, ma non solo; secondo Tzvetan Todorov è stato nientemeno che l’anello di congiunzione fra Montesquieu e Rousseau, da un lato, e Tocqueville dall’altro, cioè fra le vette della riflessione politica del Settecento e dell’Ottocento.
Come tutti sanno, Constant è noto per aver scritto il Discorso sulla libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni (1819), in cui, per la prima volta, viene chiaramente teorizzata la «libertà negativa», la «libertà da», in una parola, la libertà liberale, caratteristica dei moderni, concettualmente diversa dalla partecipazione democratica, la «libertà positiva», la «liberta di», tipica degli antichi (argomenti che, secondo alcuni critici, Constant avrebbe però «saccheggiato» da Des circostances actuelles di M.me de Staël, di cui era stato l’amante).
Constant era giunto a Parigi nel 1795, non ancora trentenne, nel periodo del Direttorio, a poco più di un anno dal Termidoro che aveva posto fine al Terrore. Pur di salvare i princìpi dell’89, la sua sensibilità lo portava ad essere lontano sia dalle posizioni della sinistra giocobina che da quelle della destra controrivoluzionaria. Si inaugurava così l’interpretazione liberale della Rivoluzione francese, da allora ininterrottamente rivisitata fino a giungere, ai giorni nostri, agli scritti dei vari Marcell Gauchet, Francois Furet, Tzvetan Todorov, Lucine Jaume (dopo che la scuola giacobina e marxista della Sorbona, negli anni Settanta, aveva decretato che Constant e M.me de Staël fossero troppo «termidoriani» per meritare attenzione).
Nei Principes de politique si realizza la maturità intellettuale di Constant, che trova qui la lucidità per argomentare la libertà, e le sue possibilità, tenendola separata dalle forme di governo; in altre parole, in lui il problema non è più la legittimazione di chi governa, ma le modalità con cui viene esercitato il potere, o meglio, i limiti che quest'ultimo incontra nella sua concreta esplicazione. Come aveva insegnato la rivoluzione, infatti il dispotismo è possibile sotto ogni regime, perché si ha quando il potere è assoluto ed illimitato. Ma quali dovrebbero essere allora i limiti del potere? Quelli che Constant chiama i «diritti individuali», argine invalicabile contrapposto all’autorità sociale. Non è sufficiente dire che il cittadino può fare tutto ciò che la legge non vieta, come aveva sostenuto Montesquieu, perché la legge potrebbe impedire tutto, e allora quale libertà rimarrebbe? La libertà di pensiero, la libertà religiosa e le garanzie giudiziarie delle libertà del cittadino non possono mai essere conculcate, neppure da un potere legittimato democraticamente (con buona pace di Jean-Jacques Rousseau).
Come spiega Stefano De Luca nella sua preziosa Introduzione, grazie a Constant abbiamo una distinzione concettuale e politica di capitale importanza, a cui ancora oggi ogni spirito liberale non rinuncia: «Dalle pagine dei Principes emerge infatti per la prima volta, in forma pressoché ideal-tipica, la distinzione tra liberalismo e democrazia pura, con le connesse istanze critiche del primo verso la seconda. Mentre la prospettiva liberale appare animata dall’esigenza di limitare il potere, nella convinzione che un grado eccessivo di autorità (a prescindere da chi la detenga) sia sempre pericoloso, la prospettiva democratica appare mossa dall’esigenza di distribuire il potere in modo eguale, nella convinzione che l’autorità del corpo sociale costituisca una libertas maior che comprende in sé e supera tutte le libertà individuali».
«Il Giornale» del 25 aprile 2007
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