I movimenti di «resistenza» in Cisgiordania e a Gaza spesso reclutano adolescenti, anche come kamikaze. Però l’Unicef fa finta di non vedere
di Edoardo Castagna
Tra i quattordici e i diciassette anni vengono definiti «bambini» se sono vittime, «giovani» se carnefici. Ragazzini arruolati fin dal 1969
Bambini (e bambine) soldato. La mente corre immediatamente verso l'Africa nera, verso i brutali e corrotti signori della guerra della Sierra Leone, della Costa d'Avorio, della Liberia, della Somalia. Mai che ci si ricordi, chissà perché, della Palestina. Lo sguardo occidentale, e soprattutto europeo, è sempre più monocolo: da una parte i cattivi, gli israeliani con i loro muri e i loro blindati; dall'altra i buoni, i poveri diavoli violentati dall'arroganza militar-capitalista e «costretti» a difendersi a mani nude contro i carri armati. Ogni atto militare dei palestinesi è immediatamente rubricato sotto l'etichetta nobile di «resistenza», ogni pervicace rifiuto al compromesso con Israele diventa la giusta difesa dei propri diritti calpestati. In questa distorta prospettiva non stupisce che mai, o quasi, si sia applicata l'infamante etichetta di «bambini soldato» ai ragazzini arruolati da al-Fatah, da Hamas o da altre sigle palestinesi per trasformarli in bombe umane. Magari per uccidere altri bambini, quelli ebrei, quelli che fanno un po' meno tenerezza, un po' meno pena. A chiamare le cose con il loro nome è invece l'antropologo americano David M. Rosen, che dedica un'intera sezione del suo Un esercito di bambini ai piccoli "martiri" palestinesi. Risale addirittura al 1969 il primo utilizzo, da parte dell'al-Fatah di Arafat, di bambini soldato: due tredicenni, che il 9 settembre assaltarono con le bombe a mano la sede di Bruxelles della compagnia aerea israeliana El Al. Un caso per nulla isolato, come dimostra il crescendo che ha accompagnato, a partire dal 2000, la seconda Intifada. Ayat, ragazzina sedicenne, uccide una coetanea israeliana facendosi esplodere nel 2002. Nel gennaio 2003 due quindicenni vengono abbattuti mentre tentano di attaccare un insediamento ebraico, in agosto due diciassettenni si trasformano in uomini (si fa per dire) bomba. Nel 2005 un'altra ragazzina, la quindicenne Noura, attacca un check-point armata di coltello: uccisa. E poi Muhammad , kamikaze diciassettenne; Issa, sedicenne; Majd', ancora diciassette anni; senza contare la miriade di ragazzini, anche più piccoli, coinvolti negli scontri a Gaza o intorno alle colonie ebraiche in Cisgiordania... Solo esempi: l'elenco, naturalmente, non è completo. Ma è più che sufficiente a mostrare che il ricorso ai bambini soldato, in Palestina, non è né casuale né sporadico, ma una scelta sistematica. Le varie organizzazioni paramilitari o manifestamente terroristiche, da al-Fatah ad Hamas, dalla Jiahd islamica alle Brigate dei martiri di al-Aqsa, negano, da sempre. Eppure lo «Human Rights Watch» ("Osservatorio sui diritti umani") non si stanca di mettere in guardia contro questi disconoscimenti, che glissano sul tema dell'età, che minimizzano l'opera di reclutamento, che definiscono gli atti dei ragazzini del tutto indipendenti e volontari. Eppure un sedicenne, condannato all'ergastolo da un tribunale militare israeliano per aver tentato di farsi esplodere su un autobus, ha confessato nel 2002 di esser stato reclutato da Hamas. Eppure la stessa Jihad islamica ha ammesso, in un caso sempre del 2002, di aver insegnato a guidare a un sedicenne per poterlo utilizzare come autobomba kamikaze. In fondo, in tutto questo non c'è nulla di sorprendente. L'opinione pubblica palestinese, come quella araba più in generale, è ampiamente comprensiva - quando non apertamente a favore - dell'impiego dei kamikaze. I bambini di Gaza e della Cisgiordania crescono immersi un un clima di odio, di disprezzo del nemico sionista, di radicale negazione di qualsivoglia diritto ebraico. I testi scolastici sono notoriamente scandalosi, aggressivi, falsi, vere e proprie istigazioni all'odio. La violenza è il contesto quotidiano, non soltanto contro gli israeliani ma anche tra fazioni palestinesi, come hanno mostrato i recenti scontri armati tra al-Fatah e Hamas. La militanza giovanile è ormai radicata nella tradizione; già lo stesso Arafat, che per tutta la vita indossò l'uniforme milit are, era stato inquadrato paramilitarmente quando aveva appena dodici anni. L'Intifada, dal 1987, vide sempre in prima linea ragazzini, spesso bambini con meno di dieci anni. Resta tutto da spiegare, allora, l'assordante silenzio delle agenzie internazionali, Onu in testa, sui bambini soldato palestinesi. L'Unicef, l'agenzia della Nazioni unite che si occupa di infanzia, dedica molta attenzione all'endemico conflitto israelo-palestinese. Lamenta puntualmente - e giustamente, ci mancherebbe - le vittime dei conflitti a fuoco e delle rappresaglie israeliane. Si preoccupa che «bambini e adolescenti, che costituiscono oltre metà della popolazione palestinese, stanno vivendo in un drammatico stato d'assedio». Denuncia la precarietà economica, sociale e sanitaria dei giovani arabi di Cisgiordania e Gaza. Puntualmente, con note che si susseguono a cadenza mensile. Ma silenzio, completo silenzio, sul fatto che, oltre che dei "cattivi" israeliani, i ragazzini palestinesi sono anche vittime delle organizzazioni militari del loro stesso popolo, che li mandano all'attacco all'arma bianca contro i militari israeliani, che li armano e li impiegano nella guerriglia, che li imbottiscono di esplosivo e li trasformano in kamikaze. L'Unicef sposa pienamente i dinieghi ufficiali di Hamas & C., e chiude tutti e due gli occhi sui dati, incontrovertibili, riguardo l'età dei giovani combattenti. E, quando elenca i suoi sforzi contro la piaga dei bambini soldato, allinea Afganistan, Angola, Burundi, Colombia, Costa d'Avorio, Liberia, Uganda, Repubblica democratica del Congo, Sierra Leone, Somalia, Sudan e Sri Lanka. Non manca proprio nessuno?
«Avvenire»del 24 aprila 2007
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