Ha percorso tutta l’arte dell’Occidente diventando una cifra della Modernità Una mostra a Verona esplora da sabato questo stato d’animo Fede e sesso ai tempi dell’«umore nero» Sulle labbra di Cléo, l’ombra del disincanto
di Claudio Magris
Nella Malinconia di Dürer, ha scritto Walter Benjamin, «gli arnesi della vita attiva se ne stanno inutilizzati al suolo, oggetti di un vano rimuginare». Per il malinconico, le cose sono enigmatiche, irrelate, ognuna isolata in se stessa, prive di autentico significato, perché egli non le guarda con quell’affettività, quel desiderio, quella confidenza che danno loro calore e le rendono familiari, amiche delle mani che le toccano e le lavorano, elementi della vita - come le stagioni, nel cui ripetersi ci si può inserire con armonia, mentre per il malinconico esso è solo un inutile sfiorire e svanire. La malinconia - osservava Goethe - è l’incapacità di amare la ripetizione che scandisce la nostra esistenza (le stagioni, il giorno e la notte, le incombenze e abitudini quotidiane, il succedersi delle generazioni) e di godere le innumerevoli e sorprendenti variazioni che ogni apparente ripetizione giornaliera, in realtà sempre nuova e avventurosa, contiene. La malinconia percepisce invece lo scorrere e il ripetersi come un’infinita monotonia, lo stillare di secondi e minuti sempre uguali nel vuoto. La malinconia è una tristezza che non sa precisare il proprio oggetto e la propria causa; avverte intensamente la perdita di qualcosa senza poter dire di che cosa. Ha a che fare con l’accidia, con l’oziosa e compiaciuta mancanza di desiderio, di progetto, di azione, è dunque vicina al peccato e al vizio, anzi ad uno dei vizi capitali. Lo sapevano i monaci medioevali che venivano messi in guardia dalla tentazione dell’«acedia», dalle lusinghe della depressione malinconica, che il Nemico insinuava loro nella spossatezza dell’ora meridiana, che fiacca le energie e stimola fantasie perverse. La malinconia non solo non può definire la mancanza di cui soffre, ma nemmeno vuole farlo, perché si compiace e si nutre di quella perdita indefinibile e della sua indefinibilità, si crogiola del proprio voluttuoso tormento; il tormento non vuole elaborare il lutto, bensì protrarlo senza limiti. Il malinconico è anche un falsario, diceva Kierkegaard, secondo il quale era la perdita di Dio ossia di un valore centrale e unificante a impedire di vedere la connessione significativa delle cose, il senso e l’unità della vita, e a indurre alla malinconia. Per i monaci questa era un peccato, che implicava pure la sessualità; una sessualità indistinta, un pulviscolo di pulsioni che riluttano a determinare il proprio oggetto, a indirizzarsi a una scelta forte e precisa, e si aprono con ciò alla seduzione del perverso, di cui la malinconia - come testimonia, attraverso i secoli e soprattutto nella modernità, tanta grande letteratura - è un’esperta maestra e iniziatrice. L’eros e la fede, le due esperienze radicali dello scandalo di esistere, sanno molto bene cosa sia la malinconia, quell’«umore nero» che, secondo gli antichi, il corpo di qualcuno secerne più di quello di un altro, determinando il suo temperamento. Questa vecchia teoria contiene una grande intuizione, non a caso elaborata dal pensiero antico, sebbene pure le grandi religioni - diceva Chesterton - siano caratterizzate da un «genuino materialismo»: il rapporto o meglio l’identità di ciò che chiamiamo spirito e di ciò che chiamiamo materia, due facce della stessa medaglia, la passione per una persona amata indistinguibile dall’espressione che essa stampa su un volto e dal meccanismo psicofisico che forma quell’espressione, che è quell’espressione. La fede che, come sta scritto, smuove le montagne, è un’energia, un modo di essere di tutta la persona. Perciò Singer, in un suo romanzo, scrive che «l’abbattimento è a un passo dal diniego» - della vita, del suo significato, di Dio. La tradizione ebraica - specie quella orientale chassidica - ha condannato la malinconia quale perdita di fede che esaurisce la vitalità, l’eros, e ha celebrato il valore religioso dell’allegrezza, del sesso, del riso quale imperturbabile resistenza alla distruzione, come rivelano tante indimenticabili storielle ebraiche, esilaranti pur nella tragedia. Si racconta che il santo e pio rabbi David di Lelow dicesse in punto di morte: «Io rido di Dio, perché ho accettato il suo mondo com’è». Anche se ha radici antiche e implicazioni religiose, oltre ad un’inseparabile dimensione clinica, la malinconia è soprattutto una categoria, un modo di essere, una poesia del Moderno, che nasce segnato dalla consapevolezza di un peccato originale, di una perdita indefinibile - non di Dio ma forse della «vita vera», o meglio del sentimento di poterla attingere. Forse nessuno l’ha espresso come Baudelaire, il Dante del Moderno, con la malinconia della metamorfosi di Parigi nei «Fiori del male», ma quasi tutta la letteratura europea degli ultimi due secoli ne è pervasa. Essa è marcata dall’incalzare della temporalità, del tempo il cui scorrere nel nulla è disillusione, come nell’«Educazione sentimentale» di Flaubert e in tanti altri capolavori (narrativi, poetici, e negli ultimi decenni soprattutto saggistici) che devono la loro grandezza all’intensità con cui hanno rappresentato, analizzato e fatto sentire la malinconia della vita, tema fondamentale di tutte le arti, dalla pittura alla musica. La malinconia non è solo depressione psichica o tristezza tortuosa e morbosamente accarezzata. La fugacità e l’imperfezione della nostra vita ne fanno una corda fondamentale dell’animo, anche di chi vorrebbe assomigliare piuttosto al rabbi David di Lelow che ai monaci inclini al demone meridiano. Nessuna vita e nessuna poesia della vita possono ignorare la malinconia, la caducità del tempo che passa, ciò che sempre manca in ogni felicità e in ogni amore anche felice, il corrompersi delle cose e dei sentimenti anche più puri, il disincanto, l’incessante alterarsi e svanire. L’amore, ha scritto Charles-Louis Philippe, è tutto ciò che non si ha; questa mancanza può essere vissuta non necessariamente con voluttà masochista, ma con un senso forte - classico, antico - dell’inevitabile scompenso che c’è fra il cuore ed il mondo, così come per il teologo Romano Guardini la malinconia è il senso di un’insufficienza terrena che può portare a Dio. Non c’è incanto senza consapevolezza e non c’è consapevolezza senza malinconia. Un secolo fa un cultore di fisiognomica, descrivendo la bellissima bocca di Cléo de Mérode, grande attrice e grande amante, notava che, col passare degli anni, intorno a quella bocca si era disegnata come un’ombra di malinconia. Forse, così, era ancora più bella.
«Corriere della sera» del 22 marzo 2007
Nessun commento:
Posta un commento