Isole molto felici
di di Mariarosa Mancuso
Voci, leggende e piccoli miracoli
Non avrà il respiro filosofico e narrativo dell’isola di “Lost” ma l’ultimo film di Martin Scorsese promette benissimo. Su “Shutter Island”, poco più di uno scoglio impervio al largo di Boston, c’è un manicomio criminale diretto da uno psichiatra in camice bianco e pipa come non se ne vedono più da certi film americani anni cinquanta. Allontanarsi sembra impossibile, se le due paia di scarpe in dotazione a ogni ricoverato sono rimaste nell’armadietto. Eppure la paziente Rachel Solando c’è riuscita: non la trovano nella sua cella e per rinforzo arrivano due agenti dell’Fbi. Non fanno in tempo a cominciar le indagini che una tempesta interrompe i residui contatti con il mondo.
Presentato alla Berlinale, il film esce oggi nelle sale italiane. Al pari dell’isola, lo circonda una barriera di protezione antispoiler: chi lo vede in anticipo sottoscrive l’impegno a non rivelarne la trama. Speriamo che funzioni. Perfino gli spettatori tardivi di “Il sesto senso” (tra i pochi film veramente riusciti di M. Night Shyamalan) a furia di sentir ripetere che c’era una sorpresona finale, non avevano occhi che per il colpo di scena. Per circumnavigare “Shutter Island” torna utile un’intervista a Martin Scorsese uscita qualche giorno fa sul mensile francese Première. Il regista non conosceva il romanzo, lo ha preso in mano solo dopo aver ammirato la sceneggiatura di Laeta Kalogridis, collaboratrice di Oliver Stone sul copione di “Alexander” (non propriamente una medaglia, se uno non vuol fare un peplum melodrammatico con mèches bensì un thriller, ma esiste il diritto a una seconda possibilità).
Sorvolando sulla trama, la chiacchierata racconta i film che hanno fatto da modello per il lavoro del direttore della fotografia. Primo, “Isle of the Dead” di Mark Robson, girato nel 1945 con Boris Karloff per protagonista. Scorsese lo vide quando aveva dieci anni, ed ebbe così paura che scappò dalla sala (senza gravi conseguenze che una brillante carriera: riferitelo a chi vuol vietare “Paranormal Activity”, senza accorgersi che, come accadde con “L’esorcista”, dietro la leggenda metropolitana degli svenimenti si nasconde un bel marketing a costo zero). Secondo, “Gli invasati” che Robert Wise ricavò dal romanzo di Shirley Jackson “L’incubo di Hill House” (Adelphi). Gli attori Leonardo DiCaprio e Mark Ruffalo hanno imparato a portare le cravattone e gli ampi trench da detective guardando Dana Andrews in “Vertigine” di Otto Preminger. Ultimo capitolo della ripetizione di cinema tenuta da Scorsese, “Suspense” di Jack Clayton, ovvero “Il giro di vite” di Henry James sceneggiato – tra gli altri – da Truman Capote. Classici e serie B, intreccio sublime. Non c’è da stupirsi se la vox blogger già sussurra che “Shutter Island” sarà perfino meglio dello splendido “The Departed”.
Presentato alla Berlinale, il film esce oggi nelle sale italiane. Al pari dell’isola, lo circonda una barriera di protezione antispoiler: chi lo vede in anticipo sottoscrive l’impegno a non rivelarne la trama. Speriamo che funzioni. Perfino gli spettatori tardivi di “Il sesto senso” (tra i pochi film veramente riusciti di M. Night Shyamalan) a furia di sentir ripetere che c’era una sorpresona finale, non avevano occhi che per il colpo di scena. Per circumnavigare “Shutter Island” torna utile un’intervista a Martin Scorsese uscita qualche giorno fa sul mensile francese Première. Il regista non conosceva il romanzo, lo ha preso in mano solo dopo aver ammirato la sceneggiatura di Laeta Kalogridis, collaboratrice di Oliver Stone sul copione di “Alexander” (non propriamente una medaglia, se uno non vuol fare un peplum melodrammatico con mèches bensì un thriller, ma esiste il diritto a una seconda possibilità).
Sorvolando sulla trama, la chiacchierata racconta i film che hanno fatto da modello per il lavoro del direttore della fotografia. Primo, “Isle of the Dead” di Mark Robson, girato nel 1945 con Boris Karloff per protagonista. Scorsese lo vide quando aveva dieci anni, ed ebbe così paura che scappò dalla sala (senza gravi conseguenze che una brillante carriera: riferitelo a chi vuol vietare “Paranormal Activity”, senza accorgersi che, come accadde con “L’esorcista”, dietro la leggenda metropolitana degli svenimenti si nasconde un bel marketing a costo zero). Secondo, “Gli invasati” che Robert Wise ricavò dal romanzo di Shirley Jackson “L’incubo di Hill House” (Adelphi). Gli attori Leonardo DiCaprio e Mark Ruffalo hanno imparato a portare le cravattone e gli ampi trench da detective guardando Dana Andrews in “Vertigine” di Otto Preminger. Ultimo capitolo della ripetizione di cinema tenuta da Scorsese, “Suspense” di Jack Clayton, ovvero “Il giro di vite” di Henry James sceneggiato – tra gli altri – da Truman Capote. Classici e serie B, intreccio sublime. Non c’è da stupirsi se la vox blogger già sussurra che “Shutter Island” sarà perfino meglio dello splendido “The Departed”.
«Il Foglio» del 5 marzo 2010
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