Lo storico del pensiero politico Angelo D'Orsi scrive un'ingenua storia delle aspettative deluse dopo la caduta del muro di Berlino
di Stefano Giani
Vent'anni da allora. Vent'anni da quando, con il muro di Berlino, era crollato il vecchio mondo. Ne stava per nascere uno nuovo e, come tutte le creature che aprono gli occhi alla vita, alimentava grandi speranze e forti promesse per l'avvenire. Il ventennio 1989-2009 ha lasciato invece molto amaro in bocca a chi si attendeva la nascita di un mondo migliore. È questa, in buona sostanza, la tesi dello storico Angelo D'Orsi, docente di storia del pensiero politico all'Università di Torino, autore di un volume dal titolo «1989» (Ponte alle Grazie, pp. 320, euro 16) in cui il professore tratteggia la cronaca di una delusione. La cronaca di una serie di aspettative perdute.
Il volume, uscito in occasione del ventennale del crollo del muro di Berlino, simbolo del cambio di un'era, viene presentato stasera alle 18.30 alla Casa della cultura di Milano. Ha il respiro profondo del rammarico, la scrittura di D'Orsi e ha soprattutto lo scoramento che uno storico di lungo corso e della sua caratura non dovrebbe avere. Sono stati vent'anni di guerre e di conflitti. Strategia preventive, lotta per il petrolio, affermazione del potere politico ed economico di un'oligarchia globale. Guerre atroci e pretestuose che hanno deluso gli obiettivi, spiega D'Orsi. Una chiave di lettura possibile, ma fin troppo ingenua per chi della storia ha fatto la professione della propria vita e quindi dovrebbe conoscere meccanismi che invece sfuggono all'uomo della strada.
«La guerra è la prosecuzione dell'attività politica con altri mezzi» aveva sentenziato Clausewitz, grande teorico delle strategie militari, e la guerra nella storia del Vecchio continente e dell'Occidente in generale è stata nei secoli un motivo costante più che una rarità. Al punto che convenzioni storiche indicano come la «pace dei cent'anni» il periodo che abbraccia il XIX secolo dal Congresso di Vienna alla prima guerra mondiale. Un periodo nel quale di conflitti ce ne furono pur sempre, ma dalle fisionomie più precise, più contenute, con finalità particolari legate a moti popolari o alla conquista dell'indipendenza.
Non deve stupire dunque se anche l'ultimo ventennio finisce caratterizzato da crisi belliche che accompagnano di pari passo la rinascita e la formazione di stati a suo tempo cancellati dalla carta geografica e inseriti in formazioni statali più articolate. Entità statali che alla fine del XX secolo hanno riconquistato la loro individualità, talvolta raggiunta al termine di conflitti anche violenti in zone di grande crisi. Quella di D'Orsi è una lettura di impostazione progressista che interpreta le «neo-guerre» di fine secolo come i conflitti di esportazione made in Usa e nei suoi alleati, ponendo l'accento sulle barbarie di questo ventennio nel quale sarebbero stati traditi a morte gli ideali dei berlinesi che nel novembre 1989 hanno abbattuto il muro.
Il volume, uscito in occasione del ventennale del crollo del muro di Berlino, simbolo del cambio di un'era, viene presentato stasera alle 18.30 alla Casa della cultura di Milano. Ha il respiro profondo del rammarico, la scrittura di D'Orsi e ha soprattutto lo scoramento che uno storico di lungo corso e della sua caratura non dovrebbe avere. Sono stati vent'anni di guerre e di conflitti. Strategia preventive, lotta per il petrolio, affermazione del potere politico ed economico di un'oligarchia globale. Guerre atroci e pretestuose che hanno deluso gli obiettivi, spiega D'Orsi. Una chiave di lettura possibile, ma fin troppo ingenua per chi della storia ha fatto la professione della propria vita e quindi dovrebbe conoscere meccanismi che invece sfuggono all'uomo della strada.
«La guerra è la prosecuzione dell'attività politica con altri mezzi» aveva sentenziato Clausewitz, grande teorico delle strategie militari, e la guerra nella storia del Vecchio continente e dell'Occidente in generale è stata nei secoli un motivo costante più che una rarità. Al punto che convenzioni storiche indicano come la «pace dei cent'anni» il periodo che abbraccia il XIX secolo dal Congresso di Vienna alla prima guerra mondiale. Un periodo nel quale di conflitti ce ne furono pur sempre, ma dalle fisionomie più precise, più contenute, con finalità particolari legate a moti popolari o alla conquista dell'indipendenza.
Non deve stupire dunque se anche l'ultimo ventennio finisce caratterizzato da crisi belliche che accompagnano di pari passo la rinascita e la formazione di stati a suo tempo cancellati dalla carta geografica e inseriti in formazioni statali più articolate. Entità statali che alla fine del XX secolo hanno riconquistato la loro individualità, talvolta raggiunta al termine di conflitti anche violenti in zone di grande crisi. Quella di D'Orsi è una lettura di impostazione progressista che interpreta le «neo-guerre» di fine secolo come i conflitti di esportazione made in Usa e nei suoi alleati, ponendo l'accento sulle barbarie di questo ventennio nel quale sarebbero stati traditi a morte gli ideali dei berlinesi che nel novembre 1989 hanno abbattuto il muro.
«Il Giornale» del 4 marzo 2010
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