Indagini giudiziarie e notizie riservate
di Sergio Romano
Gli scandali sono il sale delle democrazie. Mettono a nudo gli errori del potere e i vizi della classe dirigente. Servono a correggere le storture del sistema politico e sociale. Sono la spada di Damocle che pende sulla testa degli uomini pubblici e li costringe a controllare i propri comportamenti. Ma se cinque scandali, solo apparentemente diversi, scoppiano in uno stesso Paese nel giro di due anni, il «sale della democrazia» smette di essere un utile campanello d’allarme e diventa una manifestazione patologica. E’ciò che è accaduto in Italia. Le vicende che hanno indignato il Paese hanno una matrice diversa (finanza, calcio, ricatti, corruzione, spionaggio industriale, scambio di favori sessuali contro vantaggi di carriera) ma ciascuna di esse è arrivata nelle nostre case grazie alla pubblicazione di intercettazioni telefoniche realizzate nell’ambito di un’indagine giudiziaria. Non penso che a questo si possa rimediare emanando una legge, come quella predisposta dal ministro di Grazia e giustizia, o chiedendo ai mezzi d’informazione di censurare se stessi nell’interesse della privacy come ha fatto il Garante per la protezione dei dati personali. Queste norme e questi richiami sono probabilmente opportuni. Ma non si cura un male colpendo soltanto le sue manifestazioni esterne. La prima a interrogarsi sulla natura del fenomeno dovrebbe essere la magistratura. Negli anni Settanta i procuratori hanno combattuto il terrorismo, negli anni Ottanta hanno cercato di estirpare la mafia, negli anni Novanta hanno duramente colpito una buona parte della classe dirigente. Oggi, alla ricerca di una nuova missione, sembrano decisi a ripulire le stalle della società. Non sono più funzionari dell’accusa. Sono crociati della giustizia, forse convinti che il rinnovamento della società e dei costumi dipenda dalla loro opera più che da quella degli uomini politici. E si servono di un sistema, l’intercettazione telefonica, che colpisce indifferentemente colpevoli e innocenti. Non discuto qui il senso e l’opportunità di una tale missione. Non discuto il fatto che certi atteggiamenti abbiano contribuito a suscitare nella pubblica opinione un sentimento di qualunquistica diffidenza per tutta la classe politica, senza eccezioni e distinzioni. Non osservo che molte indagini producono quasi sempre risultati considerevolmente inferiori alle aspettative di coloro che le hanno iniziate. Mi limito a rilevare che le Procure, anche quando non concorrono alla divulgazione di notizie riservate o private, sembrano essere indifferenti alla delicatezza del materiale che si accumula nei loro fascicoli durante le fasi iniziali di una inchiesta. Sappiamo che vi sono fasi procedurali in cui un documento esce dalle mani del procuratore e diventa di pubblico dominio. Ma se il direttore di un ospedale è moralmente responsabile della custodia delle droghe contenute nella farmacia del suo istituto, è lecito chiedersi perché la magistratura non senta una stessa responsabilità verso quel velenoso intruglio di vero e falso, di utile e inutile, di rilevante e irrilevante che finisce in un’intercettazione telefonica. Ancora un’osservazione. Il fenomeno non è esclusivamente italiano. Il procuratore battagliero, aggressivo e ansioso di pubblico consenso appartiene a quasi tutte le maggiori democrazie contemporanee ed è per molti aspetti un segno dei tempi. Ma confesso di non comprendere perché i giudici vogliano continuare a convivere, all’interno di una stessa carriera, con colleghi che hanno progressivamente assunto una diversa fisionomia professionale e hanno, di conseguenza, un diverso stile di lavoro.
«Corriere della sera» del 18 marzo 2007
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