di Nino Gorio
Lo chiamano Medz Yeghern, che vuol dire "il Grande Male". È il genocidio che meno di un secolo fa, nel 1915-16, colpì il popolo armeno: forse un milione e mezzo di morti, un numero imprecisato di deportati e profughi, un'intera minoranza etnico-religiosa annientata nella Turchia centro-orientale. Fu il primo sterminio di massa di popolazioni civili del ‘900, inferiore per numero di vittime solo alla Shoah ebraica nella Germania nazista. Ogni anno gli armeni di tutto il mondo ricordano quei fatti il 24 aprile, anniversario dell'inizio delle deportazioni; ma di solito la ricorrenza passa in sordina. Quest'anno avrà più visibilità, per due motivi: la recente uscita del film "La masseria delle allodole" dei fratelli Taviani, che ha fatto riparlare del massacro, e l'omicidio di Hrant Dink, il giornalista turco-armeno ucciso a gennaio a Istanbul in un attentato di ultra-nazionalisti, che ha dimostrato come in Turchia il problema delle minoranze sia tutt'altro che acqua passata.
Il Medz Yeghern maturò mentre infuriava la prima guerra mondiale e l'Europa guardava altrove. L'impero Ottomano, prossimo al tramonto, era impegnato contro la Russia e la guerra andava male. A Istanbul regnava il sultano Mehmet V, ma il governo era in mano ai Giovani Turchi, un movimento nazionalista che propugnava la laicizzazione dello Stato e la "pulizia etnica" dell'Anatolia. Gli armeni, minoranza che parlava una lingua a sé e praticava una religione "sospetta" (un Cristianesimo organizzato su basi autonome, ma affine a quello della Chiesa ortodossa di Mosca) diventarono così il capro espiatorio per le cattive notizie che giungevano dal fronte: accusati di simpatie filo-russe, furono arrestati in massa e massacrati senza alcun processo, solo sulla base della loro appartenenza etnica. I più fortunati furono deportati nella zona di Aleppo (oggi in Siria), dove spesso la loro fine fu solo ritardata di qualche mese.
Non era la prima volta che le minoranze della Turchia finivano nel mirino: già a fine ‘800 gli armeni erano stati oggetto di persecuzioni, ma di portata inferiore. Invece lo sterminio del 1915-16, accompagnato da stupri, saccheggi e atrocità raccapriccianti, fu totale e non risparmiò neppure i bambini. Il milione e mezzo di vittime della stima corrente è frutto di un calcolo prudenziale: fonti armene arrivano a parlare di due milioni e mezzo di morti. Fonti turche, invece, si limitano a 200mila, cifra inverosimile se si considera che prima della guerra in Anatolia vivevano 3 milioni di armeni e che nel 1917 intere regioni (come quelle intorno al Monte Ararat e al Lago di Van, cuore dell'Armenia storica) erano completamente "ripulite". Dall'eccidio si salvò solo chi riuscì a fuggire in Europa (soprattutto in Francia) e chi abitava nell'Armenia orientale, che finì nell'orbita russa e nel 1918 diventò uno Stato a sé, poi inglobato nell'Urss nel 1920 e tornato indipendente nel 1991.
Lo sterminio degli armeni non è solo un problema storico: oggi acquista anche una valenza di bruciante attualità politica, perché dopo quasi un secolo pesa sulle trattative per l'ingresso della Turchia nell'Unione Europea, su importanti progetti economici e, ultimamente, anche sui rapporti turco-americani. Tutto nasce dal fatto che Ankara si è sempre rifiutata di riconoscere l'esistenza del genocidio, riconducendo le vittime a un semplice "conflitto inter-etnico". Anzi, per la legge turca parlare di "genocidio armeno" è considerato un vilipendio anti-nazionale, punibile come reato. Vittima di queste norme fu lo storico Taner Agçam, arrestato nel 1976 e condannato a dieci anni di carcere per aver risollevato il problema. Più recentemente, nel 2005, un processo simile è stato istruito contro lo scrittore Orhan Pamuk, Premio Nobel per la letteratura nel 2006; ma un anno fa, dopo l'importante riconoscimento, l'azione giudiziaria è stata sospesa e quindi annullata.
L'archiviazione del "caso Pamuk" riflette un ammorbidimento dell'attuale governo turco rispetto a tutti i precedenti: il premier in carica, Tayyip Erdogan, almeno a parole, si è detto disposto a creare una commissione mista per riesaminare tutta la materia. E un'antica chiesa armena carica di significati simbolici (S.Croce ad Akthamar, un'isola del Lago di Van), finita in disarmo dopo il genocidio, è stata riaperta nel marzo scorso, sia pure solo come museo, grazie a un costoso restauro biennale (1,5 milioni di euro) a spese di Ankara. Ma nei fatti la timida apertura ufficiale deve fare i conti con i settori ultra-nazionalisti del Paese, contrari a ogni revisionisimo e responsabili di intimidazioni verso i pochi armeni rimasti in Turchia. L'uccisione di Hrant Dink era stata preceduta da infinite minacce. E dopo aver subito un trattamento analogo gli stessi Agçam e Pamuk, che pure armeni non sono, hanno lasciato la Turchia per stabilirsi negli Stati Uniti.
Questa situazione ha già avuto riflessi internazionali. Nel 2006 la Francia ha approvato una legge che punisce la negazione del genocidio armeno. E Ankara, per ritorsione, un mese fa ha sospeso le trattative con la società Gaz de France per il Nabucco, un gasdotto che dovrebbe collegare la Turchia all'Europa Centrale con un investimento di 4,6 miliardi di euro. Intanto da marzo la tensione si è allargata agli Usa, dove il Congresso ha in calendario una mozione che qualifica "genocidio" il massacro del 1915. L'iniziativa, che ha già 15 precedenti (Italia compresa) ha provocato un altolà dell'amministrazione Bush, che teme di compromettere le relazioni con Ankara, partner commerciale importante e alleata indispensabile: l'industria americana ha in portafoglio maxi-contratti per la fornitura alla Turchia di materiale strategico, fra cui 106 aerei da guerra; e nella base anatolica di Incirlik fanno scalo gli aerei che riforniscono le truppe Usa in Iraq.
Da Aznavour ai Re Magi: l'Armenia in pillole
di Nino Gorio
L'armeno della diaspora più noto in Europa è Charles Aznavour, cantante e attore nato a Parigi nel 1924 da due esuli scampati al genocidio. Protagonista di 60 film e autore di un migliaio di canzoni, "Aznavoice" è stato insignito della Legion d'onore, massima onorificenza francese. Curiosamente, benché abbia cantato in sei lingue (francese, inglese, italiano, spagnolo, tedesco e russo), non ha mai scritto testi musicali in armeno.
Il primo Paese che adottò il Cristianesimo come religione ufficiale di Stato fu proprio l'Armenia: accadde sotto il regno di Tiridate III nel 301, cioè 12 anni prima che Costantino legalizzasse il nuovo culto nell'Impero romano. Armena è anche la chiesa più antica del mondo fra quelle tuttora in funzione: si chiama Qara Kelisa, risale al primo secolo e si trova fuori dall'attuale Armenia, isolata sui monti a nord di Tabriz (Iran).
La biblioteca di libri antichi più ricca del mondo è a Yerevan: si chiama Matenadaran (ma in Occidente è nota come "Museo del libro") e comprende 14mila volumi datati dall''887 al 1434. Della raccolta fanno parte due pezzi da record: un libro pesante 27 chili e un altro di soli 19 grammi. Un tempo due monasteri armeni (Goshavank e Sanahin) avevano biblioteche ancor più ricche (15mila e 24mila libri), che poi furono disperse.
Il monte-simbolo degli armeni è l'Ararat, un vulcano spento su cui leggenda vuole che si sia fermata l'Arca di Noè dopo il diluvio. Oggi l'Ararat è in Turchia, ma l'Armenia da sempre ne usa l'immagine su timbri ufficiali e francobolli. Negli Anni '20 Kemal Ataturk, presidente turco, protestò: "Non potete prendere a simbolo una cosa che non è vostra". Gli armeni risposero: "Voi usate come simbolo la mezzaluna. È forse vostra la luna?"
I tre Re Magi dell'Epifania sono la più popolare "invenzione" che la cultura armena ha trasmesso al resto del mondo. Infatti Matteo, l'unico fra i quattro evangelisti canonici che parla dei Magi, non ha mai scritto che fossero né tre, né re. Tanto meno ne fa i nomi. Il testo più antico che attribuì loro titoli regali e che li chiamò Melchiorre, Baldassarre e Gaspare fu il Vangelo armeno, testo del III secolo, ritenuto apocrifo dalla Chiesa.
L'Armenia oggi: una costola dell'Urss "soffocata" dai vicini
di Nino Gorio
L'attuale Armenia, repubblica indipendente nata nel 1991 dalla disgregazione dell'Urss, occupa solo il settore orientale del territorio storicamente armeno: circa 30mila chilometri quadrati (poco più del Piemonte-Val d'Aosta), per l'85% montagnosi, dove vivono 3 milioni di persone, un terzo delle quali abita nella capitale Yerevan. Afflitto da una disoccupazione cronica (7%) e da un'inarrestabile emigrazione (5 per mille l'anno), lo Stato armeno è fortemente dipendente dall'estero per tecnologia, gas e prodotti alimentari. I suoi primi fornitori sono gli altri Stati ex-sovietici (29,4%), Belgio (8%) e Germania (7,9%)3%). Le esportazioni, essenzialmente di minerali (rame, molibdeno, piccole quantità di oro), sono dirette soprattutto in Germania (15,6%) e Olanda (13,7%). Scarsi gli scambi con l'Italia, che a Yerevan fino al 2000 non aveva neppure un'ambasciata. In crescita invece i rapporti con l'Iran, dove l'Armenia esporta elettricità in cambio di gas, fornito da un gasdotto appena inaugurato.
Per vivacizzare l'economia, nell'ultimo decennio il governo armeno ha attuato una politica di marcata liberalizzazione. Ma sui conti pesano le pessime relazioni con due Paesi confinanti, Turchia e Azerbadjan. Dopo la fine dell'Urss, infatti, armeni e azeri si affrontarono in una lunga guerra (1991-94) per il controllo del Nagorno-Karabak, una regione dell'Azerbaidjan a maggioranza armena. Il conflitto si concluse con la vittoria di Yerevan (che ha di fatto annesso la zona contesa), ma a caro prezzo: da allora la Turchia, che sosteneva gli azeri, ha chiuso le frontiere, bloccando importanti vie di comunicazione; intanto 200mila armeni che vivevano oltrefrontiera si sono rifugiati nella madrepatria, aggravando i problemi occupazionali, mentre la difesa del Nagorno-Karabak impone tuttora ingenti spese militari, che assorbono il 3,5% del PIL.
Libri e film per saperne di più
di Nino Gorio
Da leggere – "I 40 giorni di Mossadagh" di Franz Werfel (ed. Corbaccio) è un racconto di guerra, ispirato a una storia vera e ambientato negli anni del genocidio. "Le terre di Nairì" di Pietro Kuciukian (ed. Guerini), è un diario di viaggio nella patria degli antenati, scritto da un medico milanese di origine armena. Il best-seller del momento è però "La masseria delle allodole" di Antonia Arslan (ed. Rizzoli), Premio Campiello 2004, da cui è stato tratto l'omonimo film (vedi sotto).
Da vedere – L'ultimo film dei fratelli Taviani, "La masseria delle allodole", appena uscito nei cinema, rievoca il genocidio armeno attraverso la storia di una famiglia, tratta dall'omonimo libro di Antonia Arslan. Girato interamente in un monastero armeno è "Il colore dl melograno", opera ormai d'epoca (1968) del regista georgiano Sergej Paradzanov: narra la vita di un trovatore del ‘600, ritiratosi in un monastero per copiare libri antichi. Importante per capire la psicologia degli armeni della diaspora, infine, è "Ararat" dell'armeno-canadese Atom Egoyan, presentato a Cannes nel 2002. Per un ritorno alla ricerca delle origini, Le Voyage en Arménie di Robert Guédiguian, Francia 2005, con l'attrice Ariane Ascaride vincitrice del premio per la miglior interpretazione femminile alla Festa del Cinema di Roma nel 2006.
In internet – Il governo armeno ha un sito ufficiale in inglese (www.gov.am/enversion), ma più interessanti per l'attualità sono quelli della comunità armena di Roma (www.comunitaarmena.it), della sua equivalente svizzera (www.armenian.ch) e dell'Associazione di amicizia italo-armena (www.zatik.com). Esiste anche uno scarno sito dell'Ambasciata italiana in Armenia (www.ambjerevan.esteri.it).
«Il Sole – 24 Ore» del 20 aprile 2007