L’aborto terapeutico e i casi di Firenze e Roma
di Pierluigi Battista
Beati i seguaci della dogmatica tecno-scientista, se non vengono scossi nelle loro incrollabili certezze nemmeno al cospetto del bimbo fiorentino sopravvissuto per sei giorni a un aborto terapeutico tardivo, o della decisione medica del San Camillo di Roma di rinunciare, in casi analoghi e previo «consenso informato» dei genitori, alle cure intensive sul piccolo per tentare di tenerlo in vita. Ma se la laicità è dubbio e non dogma, spirito critico e non fideismo, attenzione alla realtà e non rigidità dottrinaria, come può un laico non capire che anche i più recenti fatti di cronaca pongono dilemmi etici schiaccianti cui («laicamente») non si può far fronte muniti arrogantemente di risposte preconfezionate, perfettamente allineate in una nuova, seppur profana forma di catechismo? È da tempo ormai che i laici sono sulla difensiva, respingono con sospetto ogni implicazione etica legata alle nuove acquisizioni scientifiche, sempre meno convinti che la loro causa coincida senza residui con quella del futuro, del progresso, dell’illuminismo. Non hanno tutti i torti. È vero che si è rinfocolato lo spirito di rivincita sulla legge 194 che regola l’interruzione di gravidanza e combatte l’aborto clandestino. Ed è vero che la battaglia contro l’onnipotenza del tecnoscientismo assume talvolta il volto arcigno di una crociata contro la scienza in quanto tale. Ma è anche vero che liquidare ogni interrogativo etico come il frutto di una cospirazione oscurantista e clericale rischia di trasformare la difesa della laicità nell’affanno impaurito che regna in una fortezza assediata. Come se discutere della natura di un embrione, fino a negarne aprioristicamente ogni caratteristica di persona sia pur in nuce, costituisse un cedimento alle ragioni del nemico all’offensiva. Come se riflettere su ciò che si incarna in quel feto di cinque mesi di cui era stata (erroneamente, in questo caso) diagnosticata la malformazione rappresentasse un atto d’accusa alla donna che lo portava in grembo. Ma cosa deve fare, un laico: ignorare che quel bimbo non è più un feto ma un neonato e che la scienza e la tecnica non sono lontane dal traguardo di tenerlo in vita (con successo, sempre che la sopravvivenza sia ancora considerata un successo)? Cancellare per decreto l’inquietudine che il riconoscimento di una «vita umana» in uno stadio sempre più precoce dell’esistenza biologica, persino nell’embrione, possa frenare il cammino della ricerca scientifica? Ed è genuflettersi ai diktat papali chiedersi se la voglia di «bimbi perfetti» rischi di piegare impercettibilmente il rifiuto della «malformazione» nel ripudio dell’«imperfezione» in quanto tale? E tutta l’angoscia, la terribile e umanissima angoscia che ciascuno di noi prova quando si attende il responso delle analisi sul bambino che nascerà, rende lecita ogni decisione drammatica non solo del padre e della madre, ma addirittura di un medico, solo perché scientificamente plausibile? Chi ha il dono della fede, possiede già le risposte a questi interrogativi. Chi non ce l’ha, è costretto a ricominciare daccapo, e con umiltà. Soprattutto non può arroccarsi in un negazionismo preconcetto, fare spallucce per neutralizzare gli attacchi dell’avversario, eliminare il problema per non sguarnire le difese. È l’intera comunità «laica» ad essere interpellata su questioni che, letteralmente, attengono alla dimensione della vita, della morte e dell’umanità e che non trovano appagamento in risposte sciatte o medicalmente burocratiche. Coltivare il dubbio: in fondo, non è un chiedere ai laici di essere più laici?
«Corriere della sera» del 9 marzo 2007
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