Nel libro di Giorgio Barba Navaretti e Anthony Venables un rigoroso esame del ruolo delle imprese globalizzate
di Angelo Allegri
Per le Brigate Rosse degli anni ’70 erano il grande nemico, una sorta di Spectre organizzata nel Sim, lo Stato imperialista delle multinazionali, personificazione dell’apparato burocratico-repressivo creato dal denaro senza frontiere. Gli estremisti di allora sono finiti in Parlamento ma la diffidenza per le multinazionali è rimasta. Anche in aree politico-culturali lontane dalle estreme. «Non c’è dubbio: la percezione diffusa è ambigua», dice Giorgio Barba Navaretti, professore di Economia internazionale all’Università di Milano. «Ma il bello è che quasi sempre si prescinde da una seria analisi economica del loro ruolo», aggiunge. A Le multinazionali nell’economia mondiale, Barba Navaretti, insieme ad Anthony J. Venables, della London School of Economics, ha dedicato un volume pubblicato dal Mulino, edizione rinnovata di un testo edito dalla Princeton University Press nel 2004 (pagg. 230, euro 18,50). Una rigorosa disamina del ruolo dei gruppi economici globalizzati, in cui, passati in rassegna i meno e i più, le multinazionali vengono promosse a voti (quasi) pieni.
Su che cosa si basa il suo giudizio?
«Sul fatto che nei Paesi in cui vanno a stabilirsi, le multinazionali portano di solito tecnologie, management, modelli organizzativi più efficienti, aumentando la produttività complessiva del sistema».
Nel libro però lei mette in relazione crescita e presenza di multinazionali. Il risultato del confronto è che grazie alle multinazionali crescono soltanto i Paesi che hanno già un certo livello di sviluppo, soprattutto dal punto di vista del capitale umano. Il dato confermerebbe il pregiudizio su colossi economici e terzo mondo: comandano e non aiutano a crescere.
«Per le economie dei singoli Paesi i benefici dipendono dalle interazioni che i soggetti locali sono in grado di stabilire con le multinazionali. E spesso accade, per esempio nel settore petrolifero (vedi l’Azerbaijan) che la situazione di base sia tale da far rimanere le multinazionali entità a sé stanti senza la possibilità di integrazione con il resto del sistema economico. L’esempio contrario è quello dell’India, dove una forte rete di università locali, una tradizione ingegneristica di alto livello hanno portato alla nascita di società che hanno iniziato a lavorare per le multinazionali presenti nel Paese e che oggi sono già in grado di muoversi in maniera autonoma».
Soprattutto nei confronti dei Paesi poveri i colossi multinazionali riescono a far prevalere la loro forza contrattuale.
«Non c’è dubbio che ciò talvolta accada. Ma il dato più interessante degli ultimi anni è che ormai molte medie imprese hanno riorganizzato il loro processo produttivo su base multinazionale e svolgono alcune fasi di questo processo in Paesi dove riescono a essere più efficienti. Oggi le multinazionali non vengono più solo dall’America, le abbiamo in casa, magari nel Triveneto. È il fenomeno su cui si è creato il mito delle cosiddette multinazionali tascabili».
Su che cosa si basa il suo giudizio?
«Sul fatto che nei Paesi in cui vanno a stabilirsi, le multinazionali portano di solito tecnologie, management, modelli organizzativi più efficienti, aumentando la produttività complessiva del sistema».
Nel libro però lei mette in relazione crescita e presenza di multinazionali. Il risultato del confronto è che grazie alle multinazionali crescono soltanto i Paesi che hanno già un certo livello di sviluppo, soprattutto dal punto di vista del capitale umano. Il dato confermerebbe il pregiudizio su colossi economici e terzo mondo: comandano e non aiutano a crescere.
«Per le economie dei singoli Paesi i benefici dipendono dalle interazioni che i soggetti locali sono in grado di stabilire con le multinazionali. E spesso accade, per esempio nel settore petrolifero (vedi l’Azerbaijan) che la situazione di base sia tale da far rimanere le multinazionali entità a sé stanti senza la possibilità di integrazione con il resto del sistema economico. L’esempio contrario è quello dell’India, dove una forte rete di università locali, una tradizione ingegneristica di alto livello hanno portato alla nascita di società che hanno iniziato a lavorare per le multinazionali presenti nel Paese e che oggi sono già in grado di muoversi in maniera autonoma».
Soprattutto nei confronti dei Paesi poveri i colossi multinazionali riescono a far prevalere la loro forza contrattuale.
«Non c’è dubbio che ciò talvolta accada. Ma il dato più interessante degli ultimi anni è che ormai molte medie imprese hanno riorganizzato il loro processo produttivo su base multinazionale e svolgono alcune fasi di questo processo in Paesi dove riescono a essere più efficienti. Oggi le multinazionali non vengono più solo dall’America, le abbiamo in casa, magari nel Triveneto. È il fenomeno su cui si è creato il mito delle cosiddette multinazionali tascabili».
«Il Giornale» del 2 marzo 2007
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