Sotto apparenza di scienza asettica, si fa strada la tendenza a rivalutare le pratiche di selezione delle nascite. A costo di legittimare la «bontà» di certa genetica nazista e del razzismo neomalthusiano
di Lucetta Scaraffia
Con perfetto tempismo, mentre il governo britannico sta forse per pronunciarsi a favore delle manipolazioni eugenetiche degli embrioni, il 2 marzo la Repubblica ha pubblicato un «Diario» sull'eugenetica. Con articoli in apparenza equilibrati fra i pro e i contro, così come i testi segnalati per l'approfondimento: di scienziati fautori di una selezione eugenetica, ma anche di Dionigi Tettamanzi e Adriano Pessina, sia pure in proporzione di dieci a uno; all'inizio campeggia la definizione critica di «eugenismo» dovuta a Jürgen Habermas. L'intero dossier mira però - con gli articoli principali di Luca e Francesco Cavalli Sforza e di Francesco Cassata - a far passare l'idea che l'eugenetica non è tutta da buttar via, non è un pericolo da combattere, ma può anche operare per il bene dell'essere umano. Se ancora nutriamo dubbi, è solo perché siamo ignoranti, e proprio per questo ci facciamo convincere da chi - scrive Cassata - insiste «nell'assolutizzazione dell'esempio nazista, eretto a paradigma totalizzante di un'eugenica» interpretata in sostanza «come pseudo-scienza razzista e antisemita». Già nel primo articolo i Cavalli Sforza - dopo un excursus sulla storia dell'eugenetica, dall'Inghilterra di Darwin agli Stati Uniti di Davenport, «persuaso che qualsiasi caratteristica umana fosse inesorabilmente determinata dai geni» - arrivano a rivendicare come «strategia alternativa, molto più umana dell'eugenica negativa, con cui non ha nulla a che fare», l'aborto terapeutico dei feti «affetti da malattie gravi e incurabili»: in questo modo, infatti, «vengono risparmiati i loro dolori e le gravi sofferenze dei famigliari». Non si riesce però allora a capire in cosa consisterebbe «l'eugenica negativa». Inoltre, «il procedimento fa esattamente ciò che avrebbe fatto la selezione naturale»: nel senso - e qui il ragionamento dei due scienziati zoppica ancora di più - che «quasi nessuno di questi pazienti si sarebbe riprodotto». Dimenticando che però sarebbero vissuti, e avrebbero perfino potuto essere contenti di vivere, come cercano di far capire oggi molte organizzazioni di disabili. Ma l'articolo più utile per la riabilitazione dell'eugenetica è quello di Cassata: la sua tesi è che gli eugenisti erano tanti, nella prima metà del Novecento, e fra loro molti progressisti, spesso alleati con i neomalthusiani e le femministe; figure positive, quindi, tra le quali cita Margaret Sanger e Mary Stopes, entrambe paladine del controllo delle nascite. Dimenticando di informare i lettori che la Sanger è autrice di un libro di successo, La donna e la nuova razza (1920) dove la pratica di selezione eugenetica viene basata sulla contrapposizione tra fit, gli «adatti», cioè i forti, e gli unfit, gli «inadatti», cioè i deboli: «Otteniamo un frutto perfetto da alberi perfetti - scrive la Sanger - la razza è solo l'amplificazione del corpo materno (…). Gli sforzi implacabili dell'autorità reazionaria di sopprimere il messaggio del controllo delle nascite sono futili (…). Quando cadrà l'ultima catena passeranno anche i mali dovuti alla soppressione del desiderio di libertà della donna. La schiavitù dei bambini, la prostituzione, la debolezza mentale, il degrado fisico, la fame, l'oppressione e la guerra spariranno dalla terra». Nella biografia ufficiale di Margaret Sanger - fondatrice dell'Ippf (la potente federazione internazionale per la pianificazione familiare), che agisce in tutto il mondo con l'appoggio delle Nazioni Unite, e madre nobile della pillola anticoncezionale del dottor Pincus - il passato eugenetico viene omesso. E Mary Stopes era talmente fanatica della causa eugenica da diseredare e cacciare il figlio solo perché aveva sposato una donna miope. Sarebbero proprio loro a fornire le prove per una «messa a punto storiografica», scrive Cassata, per il «superamento dell'uso pubblico distorto del concetto di eugenica». Si può però dubitarne, e pensare al contrario che soltanto con una opportuna manipolazione delle fonti - come quella appena seg nalata - si può arrivare a «far luce sull'ambiguità semantica attuale» del termine «eugenica». Questo tentativo di legittimare l'eugenetica attraverso una revisione della sua storia è in atto anche su riviste scientifiche: Emanuel Betta, su un recente numero di Contemporanea, ha scritto un breve saggio dall'eloquente titolo «Eugenetica, eugenetiche», dove cerca di spiegare i motivi per cui una «capacità crescente e per molti versi inarrestabile di scienza e tecnica di intervenire sul vivente per modificarlo» ha preso un significato negativo. Capacità che dunque non sarebbe necessariamente negativa, ma che genera conflitto quando il corpo umano viene conteso fra il potere della scienza, i limiti della morale e un «presunto ordine naturale». Se ne può dedurre che, se cambiano le regole della morale, e se si abbandona l'attaccamento al «presunto ordine naturale», si eliminano gli ostacoli alle pratiche eugenetiche. Perché, come ripetono i sostenitori della nuova eugenetica, oggi non si tratta più di una decisione imposta dallo Stato agli individui per il miglioramento della razza, ma di una libera scelta individuale per una migliore qualità della vita. Ma un punto fondamentale unifica le due situazioni: un essere umano, sia pure all'inizio del suo processo vitale, viene eliminato. Si possono dire tante cose, ma alla fine il problema è solo questo, chiaro e semplice nella sua drammatica realtà.
«Avvenire» del 7 marzo 2007
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