Polemiche dopo lo speciale di «Studio Aperto» con Franceschini nel luogo del rapimento di Moro. Giordano: mi dispiace
Di Mariolina Iossa
La protesta dei parenti delle vittime di via Fani. «Rotto un silenzio che dura da 29 anni»
Hanno visto lo speciale di Studio Aperto dal titolo «Il ritorno delle Brigate rosse», con un’intervista ad Alberto Franceschini, fondatore storico del gruppo terroristico nel 1970 assieme a Renato Curcio. Un’intervista girata sui «luoghi della memoria», in via Fani dove, quando fu rapito Aldo Moro, vennero massacrati i loro cinque parenti poliziotti. Hanno mandato una lettera a Corrado Augias, pubblicata su Repubblica, per protestare contro queste interviste «indecenti». «Ci ha inorridito - hanno scritto - vedere un terrorista accanto alla lapide che ricorda l’eccidio». Una protesta garbata e senza clamori quella dei parenti dei cinque agenti uccisi in via Fani, che dalla rubrica di Augias è però subito rimbalzata al Tg1 di ieri sera, tornato sul tema con un’intervista alla vedova dell’appuntato Domenico Ricci, Maria Rocchetti. «Ora basta», ha detto la signora Maria. Basta ai brigatisti che parlano, fanno interviste, scrivono libri e tengono conferenze. «Finora siamo rimasti nell’ombra - ha continuato -. Non accettiamo più queste cose. Soffriamo in silenzio da 29 anni, io personalmente sono andata in Senato per chiedere aiuto per mio figlio, l’ho fatto studiare, ha due lauree ma non l’hanno preso. I brigatisti invece stanno lì». Composta ma dura la vedova Ricci, le cui parole Mario Giordano, direttore di Studio Aperto, il tg Mediaset che ha curato lo speciale, ha seguito con attenzione dal suo ufficio. È dispiaciuto Giordano, «la mia volontà - dice - era quella di fare un reportage giornalistico, sentire le voci dei protagonisti, e infatti abbiamo mandato in onda anche una lunga intervista alla figlia di Guido Rossa». Ammette Giordano che forse girare la scena in via Fani sia stato poco prudente, «ma io condivido totalmente la critica ai brigatisti che dovrebbero evitare di scrivere libri e tenere conferenze. Tuttavia una cosa è il reportage giornalistico, altra cosa è Curcio che va a Bologna a dare lezioni su lavoro e precariato a pochi giorni dall’anniversario dell’uccisione di Biagi». Inverte completamente il ragionamento, invece, Sergio D’Elia, deputato della Rosa nel Pugno, fondatore di «Nessuno tocchi Caino» ed ex dirigente di Prima linea con 12 anni di carcere alle spalle e riabilitazione nel 2000. «Hanno ragione i parenti delle vittime - dice D’Elia -. Un’intervista sui luoghi dell’eccidio mi sembra inopportuna e sgradevole. Il miglior modo per portare rispetto al dolore è il silenzio. Noi dobbiamo stare zitti. Ma non va fatto il corto circuito tra il dolore sacrosanto e la possibilità di reinserimento, dopo aver pagato e dopo essere stati riabilitati. Non si può negare ad una persona il diritto di cittadinanza, reinserirsi nella società è un diritto, io dico no all’ergastolo bianco».
«Corriere della sera» del 9 marzo 2007
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