di Pierluigi Battista
Giorgio Bocca, da sempre sensibilissimo sismografo degli umori che di volta in volta si impongono nella volubile opinione pubblica italiana, ha tessuto sull’Espresso un paradossale elogio della censura con cui la stampa dell’epoca fascista usava cancellare i fattacci di cronaca nera per non deturpare l’immagine di ordine e di onnipotenza del regime. La sindrome censoria sta infatti riacquistando un vigore e un appeal appannati negli anni in cui sembrava intollerabile mettere la museruola ai fatti, imbavagliare le opinioni, abolire d’autorità ciò che appare sgradevole. La tentazione della censura appare nuovamente la via più facile, la scorciatoia fatale che dà la sensazione (ma solo la sensazione) di semplificare la vita sociale, arginare le dinamiche disgreganti, imporre un’unicità di pensiero. In tutti i campi della vita pubblica, nel mondo dei libri e delle canzoni, del cinema e della pubblicità. Cosa si fa, d’istinto, se su un manifesto pubblicitario di Dolce e Gabbana appaiono immagini che possono legittimamente risultare offensive, violente, oltraggiose per le donne? Forse ci si limita a criticare con forti e convincenti argomenti quella pubblicità che risulta tanto violenta, offensiva e oltraggiosa? No, se ne chiede senza tentennamenti la cancellazione per decreto, si proclama il boicottaggio che dovrebbe portare al ritiro di quelle immagini, si invocano commi e codicilli per vietarne l’esibizione. Si esige la censura con l’intento di far sparire l’immagine sgradevole, umiliare i suoi artefici con il rito purificatorio della ritrattazione: un rogo simbolico, ma pur sempre un rogo. Anche per il film di Mel Gibson, grondante atrocità grandguignolesche ed efferatezze pulp, si è invocata la censura. Limitata ai minori, ma pur sempre censura, arcignamente amministrata da apposite commissioni le quali, nel nome di sani e sacri princìpi, sono chiamate a stabilire per legge, sotto l’onda emotiva dell’indignazione popolare, ciò che è lecito guardare e ciò che non lo è. Non fa scandalo che un professore universitario sia costretto, schiacciato da micidiali pressioni psicologiche e mediatiche, interdetti e scomuniche, a ritirare un suo libro dal commercio, acconciarsi alla triste liturgia dell’abiura, rinnegare ciò che si è pensato e scritto per anni, con la pretesa addirittura scandalosa di pubblicare, come tutti, il frutto delle sue ricerche e delle sue idee. Non suscita disagio «liberale» che un giornalista, che se pure avesse violato la legge dovrebbe rispondere come tutti i cittadini ai magistrati e non ai sacerdoti della sua corporazione, non possa più scrivere articoli perché l’ordine professionale gli ha intimato il silenzio e la morte civile: come se scrivere non fosse un diritto indisponibile, soggetto solo alla legge e non a un tribunale censorio che pretende di detenere il monopolio dell’etica e della deontologia. Si propongono leggi, come quella che stabilisce il divieto del «negazionismo» e che ha suscitato la preoccupazione di molti storici di diverso orientamento politico e culturale, in cui le opinioni anche le più infami e farneticanti si trasformano in reati. Non fa impressione che sempre più di frequente politici e parlamentari suggeriscano la cancellazione di programmi di intrattenimento televisivo, fiction storiche, persino spettacoli sportivi considerati diseducativi e poco edificanti. Sono segnali diversi, ma che hanno in comune una diffusa e ramificatissima e bipartisan attitudine al fare censorio, come se fosse naturale ergersi a giudici inappellabili, pubblici castigatori di un popolo (di un pubblico) da tenere sotto tutela. Forse Giorgio Bocca potrebbe spiegare se le veline di regime nacquero proprio così.
«Corriere della Sera» del 5 marzo 2007
Nessun commento:
Posta un commento