Il «j'accuse» del giurista Paolo Grossi: dopo le derive del soggettivismo dobbiamo tornare alla visione «sociale» della legge
di Edoardo Castagna
«Assistiamo al riconoscimento di libertà individuali talvolta aberranti, dove il singolo fagocita ciò che gli sta intorno, senza vere relazioni con gli altri. Chi difende questa situazione ha un’idea miope di laicità»
Oggi sembra che tutto sia diventato un diritto. Messi in cassaforte - almeno nel nostro Occidente - quelli umani fondamentali, da tempo si alzano voci che reclamano altrettanta tutela giuridica per sedicenti «diritti» negati: il "diritto" ad avere figli, per esempio, o a disporre della propria morte, o a "sposarsi" dentro e fuori alla famiglia... La parola «diritto» è oggetto allora di una trasformazione. «E non certo in senso positivo», osserva il giurista Paolo Grossi, che nei giorni scorsi ha ricevuto la laurea honoris causa in Giurisprudenza dall'Università Cattolica di Piacenza.
Che cosa c'è alla radice di questa trasformazione dei «diritti», professor Grossi?
«Tutto sta nel come si è venuto a costruire durante la modernità il soggetto. Certo, una della conquiste degli ultimi secoli è avere districato il singolo dai vincoli di ceto e di casta, attraverso diritti che sono tuttora essenziali: il diritto di libertà di pensiero, di professione religiosa, di circolazione, di riunione. Ma questo passo avanti è stato condito da un certo parossismo soggettivistico: il soggetto è stato separato completamente dalla società e si è pensato solo a un individuo autoreferenziale, assolutista, egoista. Il risultato è la moltiplicazione dei "diritti", anche di quelli più aberranti sul piano sociale. Quello che dobbiamo combattere non è, naturalmente, la liberazione del soggetto, così come è avvenuta nel Seicento e nel Settecento, ma la strada che ha portato a questa liberazione: il fare dell'individuo un soggetto insaziabile, che fagocita chi gli sta intorno. Questo individuo non è persona, perché non è un soggetto relazionale. Io sono persona nel momento in cui la mia individualità si mette in tensione con l'altro che mi sta accanto, cioè quando io concepisco il mio essere soggetto all'insegna di un'etica della responsabilità, in cui devo tenere conto anche degli altri».
Come tracciare un confine tra diritti leciti e diritti egoistici?
«Nei r apporti tra credenti il problema non si pone nemmeno. Ma anche su un piano di laicità io credo fermamente nella ragione profonda del diritto naturale. C'è un'esigenza di diritto naturale, cioè di un diritto che è scritto nel cuore degli uomini - sarà Dio che ce l'ha scritto, sarà la coscienza di un minimo etico che ognuno di noi ha -, sulla quale si può costruire una tavola di valori condivisa. Soltanto nel momento in cui io divento persona - e divento persona solo quando mi metto in relazione con gli altri - posso costruire qualcosa. Il soggetto ha dei diritti, ma anche dei doveri; solo se al diritto aggiungo il dovere, allora contemplo l'altro. Questa è un'ottica puramente laica: la nozione di diritto naturale è preziosa, ed è aconfessionale».
Eppure spesso da parte laica la si «squalifica» bollandola come esclusivamente cattolica…
«Ma questa è una visione da laici miopi, che non vedono come nel fondo di ogni uomo, credente o no, ci sia un minimo etico invalicabile. Noi siamo ancora malati di individualismo».
Una malattia che si riflette nelle costruzioni giuridiche dell'Europa attuale?
«Sì: prendiamo la Costituzione europea, la Carta di Nizza: è un catalogo come quelli che si facevano nel tardo Settecento, che allineavano una serie di posizioni soggettive. Ma, quando abbiamo enunciato a favore del soggetto una serie di diritti, dobbiamo andare oltre. Dobbiamo vedere l'io sociale, all'interno delle formazioni civili: perché sono queste che impediscono la massificazione. La Carta di Nizza pecca ancora di eccessivo individualismo, ultimo anello di una catena che risale al 1789. Oggi ci si sarebbe potuto aspettare qualcosa di più».
Invece la tendenza sembra essere quella dell'accentuazione diritti egoistici?
«Di quelli svincolati da una proiezione sociale. Prendiamo per esempio tutto il dibattito in corso oggi in merito alle coppie di fatto. È soltanto un guardare alle posizioni egoistiche di tizio o di caio, senza considerare minimamente quello che è il bene comune. Ma non occorre essere credenti per dire che lo Stato deve preoccuparsi soltanto della famiglia monogamica: perché quella è la cellula della società civile. Poi, tutt'altro discorso è come io gestisco il mio privato: ma quello resta privato. Lo Stato deve occuparsi soltanto della cellula portante della società. E qui tutti - cattolici, buddisti, atei, agnostici... - credo che debbano essere d'accordo. Anche se non lo sono, perché quello che si porta avanti programmaticamente sono solo le bandiere del più bieco individualismo».
Che cosa c'è alla radice di questa trasformazione dei «diritti», professor Grossi?
«Tutto sta nel come si è venuto a costruire durante la modernità il soggetto. Certo, una della conquiste degli ultimi secoli è avere districato il singolo dai vincoli di ceto e di casta, attraverso diritti che sono tuttora essenziali: il diritto di libertà di pensiero, di professione religiosa, di circolazione, di riunione. Ma questo passo avanti è stato condito da un certo parossismo soggettivistico: il soggetto è stato separato completamente dalla società e si è pensato solo a un individuo autoreferenziale, assolutista, egoista. Il risultato è la moltiplicazione dei "diritti", anche di quelli più aberranti sul piano sociale. Quello che dobbiamo combattere non è, naturalmente, la liberazione del soggetto, così come è avvenuta nel Seicento e nel Settecento, ma la strada che ha portato a questa liberazione: il fare dell'individuo un soggetto insaziabile, che fagocita chi gli sta intorno. Questo individuo non è persona, perché non è un soggetto relazionale. Io sono persona nel momento in cui la mia individualità si mette in tensione con l'altro che mi sta accanto, cioè quando io concepisco il mio essere soggetto all'insegna di un'etica della responsabilità, in cui devo tenere conto anche degli altri».
Come tracciare un confine tra diritti leciti e diritti egoistici?
«Nei r apporti tra credenti il problema non si pone nemmeno. Ma anche su un piano di laicità io credo fermamente nella ragione profonda del diritto naturale. C'è un'esigenza di diritto naturale, cioè di un diritto che è scritto nel cuore degli uomini - sarà Dio che ce l'ha scritto, sarà la coscienza di un minimo etico che ognuno di noi ha -, sulla quale si può costruire una tavola di valori condivisa. Soltanto nel momento in cui io divento persona - e divento persona solo quando mi metto in relazione con gli altri - posso costruire qualcosa. Il soggetto ha dei diritti, ma anche dei doveri; solo se al diritto aggiungo il dovere, allora contemplo l'altro. Questa è un'ottica puramente laica: la nozione di diritto naturale è preziosa, ed è aconfessionale».
Eppure spesso da parte laica la si «squalifica» bollandola come esclusivamente cattolica…
«Ma questa è una visione da laici miopi, che non vedono come nel fondo di ogni uomo, credente o no, ci sia un minimo etico invalicabile. Noi siamo ancora malati di individualismo».
Una malattia che si riflette nelle costruzioni giuridiche dell'Europa attuale?
«Sì: prendiamo la Costituzione europea, la Carta di Nizza: è un catalogo come quelli che si facevano nel tardo Settecento, che allineavano una serie di posizioni soggettive. Ma, quando abbiamo enunciato a favore del soggetto una serie di diritti, dobbiamo andare oltre. Dobbiamo vedere l'io sociale, all'interno delle formazioni civili: perché sono queste che impediscono la massificazione. La Carta di Nizza pecca ancora di eccessivo individualismo, ultimo anello di una catena che risale al 1789. Oggi ci si sarebbe potuto aspettare qualcosa di più».
Invece la tendenza sembra essere quella dell'accentuazione diritti egoistici?
«Di quelli svincolati da una proiezione sociale. Prendiamo per esempio tutto il dibattito in corso oggi in merito alle coppie di fatto. È soltanto un guardare alle posizioni egoistiche di tizio o di caio, senza considerare minimamente quello che è il bene comune. Ma non occorre essere credenti per dire che lo Stato deve preoccuparsi soltanto della famiglia monogamica: perché quella è la cellula della società civile. Poi, tutt'altro discorso è come io gestisco il mio privato: ma quello resta privato. Lo Stato deve occuparsi soltanto della cellula portante della società. E qui tutti - cattolici, buddisti, atei, agnostici... - credo che debbano essere d'accordo. Anche se non lo sono, perché quello che si porta avanti programmaticamente sono solo le bandiere del più bieco individualismo».
«Avvenire» del 7 marzo 2007
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