Un saggio sulla sinistra dal 1848 alla sconfitta del Fronte popolare dell’ex direttore dell’«Avanti !»
di Aldo Cazzullo
Antonio Ghirelli: «Fanfani ci passava informazioni per screditare Piccioni»
L’ultimo libro di Antonio Ghirelli - 85 anni, uno dei padri del giornalismo sportivo italiano, portavoce di Pertini e di Craxi, direttore del Tg2 e dell’Avanti! - finisce là dove comincia la sua storia. Aspettando la rivoluzione, appena pubblicato da Mondadori, ricostruisce con ricchezza di aneddoti e lucidità di analisi un secolo di vicende della sinistra italiana, dalla fiammata del 1848 alla sconfitta del Fronte popolare. Storia di anarchici, socialisti, comunisti, che però condensa in un agile capitolo finale le vicende a noi più vicine, di cui l’autore è stato testimone diretto. Un racconto da approfondire. Ghirelli abita a Roma sulla Flaminia, con la moglie sposata più di sessant’anni fa, la foto con Eduardo, la macchina da scrivere con cui scrive i suoi libri. «Dopo la liberazione del Sud mi sono unito alle truppe che risalivano la penisola. Ero stato assunto da quel che restava dell’Eiar, facevamo una radio che prendeva il nome dell’ultima città dov’eravamo arrivati: radio Bari, radio Napoli. I miei amici Patroni Griffi e La Capria si fermarono a Roma, io e Tommaso Giglio proseguimmo con la Quinta Armata. Sei mesi bloccati ad Altopascio. Caduta la linea gotica, a Bologna assunsi un giovane partigiano di Giustizia e Libertà, Enzo Biagi: insieme abbiamo annunciato che la guerra era finita». Il futuro uomo di fiducia dei leader socialisti allora era comunista. «E lo sono stato fino al ‘56. Una grande scuola, anche di giornalismo. All’Unità mi assunse Pajetta. Poi Milano Sera, con Gaetano Afeltra, il Toscanini della tipografia. Alcune delle migliori corrispondenze del giornalismo italiano, compresi passi del grande Montanelli dall’Ungheria, sono state scritte da lui, dopo che aveva parlato con gli inviati al telefono. Il miglior pezzo della mia vita, in morte di Coppi, me lo dettò Afeltra. Ho lavorato anche a Torino, in un’atmosfera straordinaria scandita dalla presenza o dalla memoria dei grandi ebrei piemontesi - Ginzburg, i due Levi, Foa, Terracini -. E poi a Roma, a Paese Sera». «Ero togliattiano, e lo rivendico. Togliatti fece brutte cose al servizio di Stalin ma fu politico di statura internazionale. La sua apertura ai giovani ex fascisti fu una mossa lungimirante: il giornale di Bilenchi a Firenze è stata una delle spine nel fianco della Dc nella campagna della legge truffa. Togliatti era anche un ottimo editore, curava molto l’impaginazione e la titolazione, ci insegnava a mimetizzare la politica nella cronaca. E sapeva scegliere i direttori: a Paese Sera, Tommaso Smith, Fausto Cohen. Eravamo spregiudicati. Montammo una campagna durissima contro il povero Attilio Piccioni sullo scandalo Montesi, in cui il figlio non c’entrava nulla; ma noi ricevevamo informazioni riservate dal ministro degli Interni, che era poi il rivale di Piccioni nella successione a De Gasperi, Amintore Fanfani, di cui condividevamo il disegno del centrosinistra. Dal Pci me ne sono andato più per il rapporto Krusciov che per l’Ungheria. Si riunì la cellula guidata da Michele Salerno, detto il Lenin di Brooklyn perché era cresciuto a New York, e mi annunciarono l’espulsione per indegnità politica e morale. "Politica passi, ma morale no; se lo fate vi querelo tutti", risposi. Amerigo Terenzi allora mi chiese di restare. Ma ormai era finita». Di Pertini, Ghirelli conserva un ricordo straordinario, anche dopo la cacciata dal Colle. «Un uomo irripetibile. Uno che dopo la liberazione di Roma aveva rifiutato il ministero dell’Interno che Nenni gli offriva per andare al Nord a combattere: "No grazie Pietro, mi sono allenato a gettarmi con il paracadute, ho un amico della Raf che mi porterà oltre le linee". Tornò solo dopo la morte di Mussolini». Come finì il suo lavoro di portavoce? «Era il 1980, eravamo a Barcellona da Juan Carlos, l’unico Borbone buono dai tempi di Carlo III. Al mattino scoppia a Roma il caso Cossiga, accusato di aver avvertito Donat-Cattin dell’arresto imminente del figlio. Pertini mi telefona: «"Ghirelli si prepari, i compagni socialisti catalani invitano me e lei a Barceloneta, pesce e vino, sarà una colazione strepitosa!". "Va bene presidente, ma Cossiga?". "È una vergogna! Si deve dimettere!". Al che scrivo due righe e le lascio a un funzionario: "Se i giornalisti ti chiedono qualcosa, tu rispondi solo che, se fosse vero, sarebbe molto grave". Quello invece convoca i giornalisti e legge l’appunto come se fosse un comunicato del presidente. A Roma accade di tutto. Pertini mi fa ascoltare la telefonata del segretario della Dc Piccoli, che chiede la testa del responsabile, pena la richiesta di impeachment. "Licenziamo questo funzionario!". "Presidente, non si può: ha moglie e quattro figli. E poi la responsabilità è mia". "Allora licenzio lei!". Tornai da Barcellona con un volo Alitalia a mie spese. Ma quando, alla fine del settennato, andai a trovarlo a Palazzo Giustiniani, Pertini mi sorrise: "Abbiamo fatto un bel lavoro, lei e io, al Quirinale"». I rapporti tra il presidente e i compagni socialisti non erano facili. «Tentai invano di indurlo a nominare senatore a vita uno dei nostri grandi vecchi. Lombardi non andava bene, perché, diceva Pertini, "semel abbas semper abbas: da ragazzo era dell’Azione cattolica". De Martino neppure, perché "quand’ero in carcere giurava fedeltà al Duce". Nenni neppure, perché "con quella bocca a culo di gallina mi ha lasciato 14 anni fuori dalla direzione". Quanto a Saragat (forse l’unico dei politici italiani ad avere davvero letto Marx in tedesco), amava dire che "Sandro è un eroe, soprattutto se c’è la tv"». Neppure con Craxi si amavano. «Per motivi caratteriali e anche politici. Bettino era diretto, spiccio, per nulla ossequioso; quando Pertini gli diede l’incarico si presentò al Quirinale in jeans, e il presidente infuriato lo mandò a cambiarsi: "Cosa vuole questo Craxi, non sa che io l’ho tenuto sulle ginocchia in casa del suo babbo?". E poi l’anticomunismo di Craxi disturbava Sandro, cui era rimasta un po’di nostalgia per il Fronte popolare. Era molto influenzato da Scalfari, si sentivano spesso al telefono, e questo ovviamente non giovava ai rapporti con Craxi: ricordo la furia di Pertini per lo scandalo Teardo. E poi adorava Berlinguer, che invece Craxi detestava. Quando il segretario del Pci morì, Pertini lo riportò a Roma sull’aereo presidenziale: un gesto che ai socialisti è costato 300 mila voti alle elezioni successive». Il rapporto con Craxi comincia dal dentista. «Quasi non lo conoscevo. Avevo scritto un libro su di lui ma si era limitato a rispondere alle mie domande per iscritto. Appena diventato presidente del Consiglio mi rintracciò durante un’otturazione: "Verresti a darmi una mano a Palazzo Chigi?". Pensai a uno scherzo». Anche di Craxi, Ghirelli conserva «un ricordo splendido. Posso testimoniare il suo assoluto interesse personale per il denaro, che gli serviva per fare politica. Soares e Gonzalez gli erano devoti perché li aveva finanziati quand’erano in clandestinità, così come Arafat; e ricordo quando in Argentina i sindacalisti di tutto il Sud America lo accolsero con un’ovazione, per ringraziarlo dei "dieci anni di aiuti". Una volta si presentò in via del Corso, Jiri Pelikan, Craxi chiese a Balzamo: "Quanto abbiamo in cassa? Quaranta milioni? Jiri, ti bastano?". Lui era così, generoso ma burbero. Si poteva adattare a Bettino un detto di Talleyrand: "Un così grand’uomo, così maleducato". Amava le donne, la tavola, dava del tu a tutti. Quando poi divenni direttore del Tg2, non fu mai invadente». Non ne aveva bisogno. «Be’, la nota politica la faceva Onofrio Pirrotta, che aveva sposato la segretaria di Bettino. Bravo giornalista, però. E quando affidai a Giuliano Ferrara la prima rubrica di commento politico, lo feci contro il parere di Craxi che mi ripeteva: "È troppo grasso"».
Il libro: Antonio Ghirelli, «Aspettando la rivoluzione. Cento anni di sinistra italiana», Mondadori, pp.256, 18
Il libro: Antonio Ghirelli, «Aspettando la rivoluzione. Cento anni di sinistra italiana», Mondadori, pp.256, 18
«Corriere della sera» del 17 marzo 2007
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