Un saggio di Avishai Margalit
di Aurelio Lepre
La discussione sulla memoria si svolge nella zona di frontiera, dai confini non chiaramente delineati, che esiste tra filosofia e storia ed è frequentata spesso anche dai politici e riguarda un argomento fondamentale per il nostro presente e per il nostro futuro. Dobbiamo ricordare o dimenticare? L’umanità deve immergersi nelle acque della fonte di Lete, che scorre via portando con sé i ricordi angosciosi, o in quelle della palude di Mnemosine, ristagnante e intorbidata dagli orrori del passato? La memoria degli orrori, veri o presunti, della prima guerra mondiale è stata - non c’è nessun dubbio - il terreno su cui è cresciuta rigogliosamente la pianta della vendetta che ha portato alla seconda. Si pensi all’elaborazione del lutto dei caduti. In una densa e complessa opera intitolata L’etica della memoria (Il Mulino, pagine 176, 13), ricca di spunti interessanti anche per gli storici, il filosofo israeliano Avishai Margalit scrive che la formazione del culto dei soldati caduti mira a creare una tensione emotiva nella quale i morti «continuano a partecipare attivamente alla guerra di riscatto». A questo proposito si potrebbe ricordare che i giovani tedeschi morti nel 1914 a Langemarck (episodio ricordato anche da Hitler nel Mein Kampf) diedero il nome a una divisione di SS, che combatté nella seconda guerra mondiale. «Le mort saisit le vif»: il morto afferra il vivo e lo trascina alla rovina, come in una danza macabra del Medioevo. L’«etica della memoria», dunque, è spesso distruttiva. Soprattutto nel senso che le dà Margalit con la sua distinzione tra etica e morale, tra le relazioni «etiche», che si stabiliscono all’interno di una famiglia o di una comunità, e quelle «morali», che riguardano, o dovrebbero riguardare, l’intera umanità. In entrambi i casi, in realtà, la memoria viene costruita, quando non è addirittura inventata. Quella collettiva, infatti, non può essere la semplice somma delle memorie individuali, che sono molto ingannevoli. Margalit incontrò a Praga un giovane che sapeva che a Lidice era accaduto qualcosa di terribile durante la guerra (il massacro degli abitanti maschi come rappresaglia per l’uccisione del governatore nazista Reynard Heydrich), ma non sapeva in quale guerra. È un’esperienza vissuta da chiunque abbia frequentato i giovani in un’aula universitaria e che dovrebbe invitare alla massima cautela ogni volta che si parla di memoria collettiva, come se esistesse di per sé e non fosse il risultato delle azioni di «agenti e agenzie a cui è affidata la sua conservazione e la sua diffusione». Nel caso dell’«etica della memoria», propria delle comunità in cui i sentimenti di appartenenza sono fortissimi, i titolari di quelle agenzie possono causare danni molto seri non soltanto se agiscono in mala fede, ma anche quando sono convinti di essere i depositari e i custodi della verità. Diversamente da Margalit, credo che la memoria collettiva sia quasi sempre costruita e che lo sia stata anche quella dei serbi sulla battaglia del Kossovo del 1389. E non potrebbe non essere costruita artificiosamente, al punto da risultare irrimediabilmente falsata, anche la nostra «memoria condivisa», di cui tanto si è parlato in Italia negli ultimi tempi: le memorie degli anni 1943-45 resteranno sempre separate e la condivisione si può avere soltanto nella ricostruzione e nel giudizio storico, se gli storici sono in grado - ma molto spesso non ci riescono o non vogliono riuscirci - di rinunciare al senso dell’appartenenza. A questo punto però diventa necessario segnare confini molto netti tra storia e filosofia. Gli storici non possono seguire i filosofi quando parlano di Male assoluto e «forze del male» (lo fanno anche alcuni cattivi storici). Non possono seguirli neanche quando s’introduce nel discorso la concezione religiosa del perdono. E non tanto perché, come rileva Margalit, il perdono può significare cancellazione del peccato ma anche suo occultamento, quanto perché, se si passa dal piano individuale a quello collettivo e si pone la questione di perdonare un’intera comunità, la si umilia profondamente, col rischio di suscitare una violenta reazione di rigetto. Finché la politica sarà la principale «agenzia» della gestione della memoria e ricorrerà, per costruirla, a «testimoni politici», il suo uso comporterà gravi pericoli. Che non ci sarebbero se si ricorresse soltanto a quelli che Margalit definisce «testimoni morali» e di cui si potrebbe vedere un esempio in Primo Levi, che, per restare alle definizioni del filosofo israeliano, uscì dall’angusto recinto dell’«etica della memoria» e si inoltrò nello spazio molto più ampio della morale, della costruzione di una memoria condivisa dell’intera umanità, non di quella separata in comunità, a cui apparteniamo oggi, ma di quella che, forse, esisterà in futuro. Se la forza distruttiva delle memorie contrapposte consentirà che ci sia un futuro e l’umanità non soccomberà sotto il peso insostenibile dei suoi tragici ricordi.
«Corriere della sera» del 5 marzo 2007
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