Trent’anni fa scoppiava la rivoluzione delle radio libere
Di Aldo Grasso
Di Aldo Grasso
Una stagione esaltante ora rievocata in una mostra a Milano - l’Evoluzione del Pubblico
Da tempo la radio non occupa più il centro della scena mediatica. Questo non significa che il mezzo sia morto o, come si insinua, che molti conduttori facciano radio in attesa solo di fare tv o facciano radio perché non fanno fare loro tv, significa invece che la radio, dopo anni di incertezza e di ricerca di identità, ha fatto della «marginalizzazione» la sua vera risorsa espressiva. Negli ultimi anni, infatti, la radio si sta evolvendo sia sul piano tecnologico che su quello dell’audience, avendo dovuto affrontare e superare un grande paradosso mediologico. Che è questo: la radio potrebbe raggiungere a bassi costi e, come si dice, «in tempo reale», realtà geografiche e sociali diversissime (e farsi raggiungere da queste a prezzo di un semplice collegamento via internet). L’ubiquità e l’interattività radiofoniche non sono - come invece per la televisione - miti aggressivi e senza riscontro ma dati di fatto pacifici. Poi però, contro queste potenzialità enormi, si sono schierate arretratezze e difficoltà di ogni tipo, che rinchiudono la radio nei suoi confini tribali. Un solo esempio significativo: la «piccola» radio ha pagato una pesante arretratezza tecnologica. Ancora oggi l’ascolto avviene per la maggior parte del pubblico su un canale solo, la preselezione e il telecomando (in una parola: lo zapping)hanno una diffusione limitata. Lo zapping radiofonico, che sarebbe l’evoluzione naturale dell’ascolto, è reso improbabile non solo dal ritardo tecnologico ma anche dal tipo di pubblico e dal tipo di offerta. Cambiando canale non si cambia solo programma (come succede in televisione, dove ogni spettatore cerca di montarsi un palinsesto individuale): si cambia soprattutto linguaggio. Fino ieri si potevano identificare due modelli radiofonici di base, due ideali di radio. Nessuna emittente realizzava perfettamente uno dei due modelli, ma ciascuna emittente trovava la propria identità in un’approssimazione più o meno fedele a l’uno o l’altro. Il modello tradizionale era quello della radio generalista: una radio fatta di programmi e di generi, che di ora in ora concede tempo alle notizie, al dibattito politico, ai problemi sociali, alle varie forme radiofoniche dello spettacolo, ai vari tipi di musica, allo sport e insomma a tutto quanto possa passare attraverso un microfono. Il tentativo era quello di coprire l’intera gamma dell’acustico, raggiungendo le maggiori fasce di pubblico. Il modello più recente è quello della radio tematica: una radio che innanzitutto sceglie un pubblico, identificandolo per fasce d’età, o per provenienza geografica, o per identità ideologica o di fede. Il fenomeno più rilevante, e di gran lunga, è quello delle emittenti a pubblico giovanile, dove l’offerta musicale non si struttura più attraverso un palinsesto, ma attraverso un flusso continuo la cui programmazione risponde a precise regole di omogeneità. Lo sviluppo tecnologico (la trasmissione digitale permette tra l’altro la sintonia e identificazione automatica della stazione, aumenta la qualità del suono, le condizioni ottimali di ricezione e il perfezionamento dei servizi di informazione con il display) crea ora trasmissioni ancora più mirate. Crea soprattutto un concetto innovativo e socialmente rilevante: la community. Attraverso le radio si creano tante comunità virtuali che si sintonizzano, vivono, crescono avendo come punto di riferimento una singola emittente. Sono tribù metropolitane che si riuniscono attorno a una fede politica o calcistica, a un sentimento religioso, a esigenze di lavoro, al desiderio di cazzeggio, all’insopprimibile voglia di non sentirsi soli. La vitalità di una radio si misura nel saper precedere o seguire di pochi passi le preferenze musicali e gergali del propria community, senza distanziarsene troppo né in un caso né nell’altro.
«Corriere della sera» dell’8 marzo 2007
Nessun commento:
Posta un commento