I ricordi di Luigi Filippo d’Amico
Di Tullio Kezich
Era fascista ma rifiutò i funerali di Stato del regime
In una solare giornata d’estate del ‘34, a Castiglioncello, mancava il quarto al tavolo di scopone nel villino Conti affittato da Luigi Pirandello. Attaccato alle abitudini e impaziente come sempre, il drammaturgo invitò al posto dell’assente un bimbo che stava trastullandosi in giardino. Lo ricorda grato Luigi Filippo d’Amico nel suo libro L’uomo delle contraddizioni. Pirandello visto da vicino (Sellerio, pp. 176, 10): «Il Maestro fu benevolo, perché seguii i dettami del Chitarrella (avevo quasi dieci anni)». «Pippo» era il nipote dell’illustre critico teatrale Silvio d’Amico, la cui lunga fedeltà a Castiglioncello aveva attratto Pirandello nella beata oasi tirrenica: dove fra una partita e l’altra scrisse Non si sa come e Quando si è qualcuno, dandone poi lettura a un amichevole areopago che includeva, oltre ai d’Amico, la famiglia di Emilio Cecchi al completo, Corrado Pavolini, Arnaldo Frateili e altri estivanti intellettuali. La conoscenza diretta, troncata un paio d’anni più tardi dalla polmonite che si portò via il premio Nobel nel dicembre ‘36, non esaurì il legame di Luigi Filippo con Pirandello, di cui finì per sposare la nipote Lietta, mentre suo cugino Alessandro, figlio di Silvio e devoto curatore dell’opera omnia pirandelliana, ne sposò l’altra nipote Maria Luisa. Tutti amori sbocciati più tardi nell’atmosfera di Castiglioncello ancora impregnata della presenza di Nonno. È chiaro, insomma, il motivo per cui questo excursus di d’Amico (regista cinematografico e raffinato teorico del bridge) si stacca dalla pur nutrita bibliografia sullo scrittore agrigentino. È infatti uno schizzo tracciato dall’interno della cerchia più intima senza tuttavia indulgere, secondo gli usi attuali, a pettegolezzi o rivelazioni scandalose. E dire che ce ne sarebbe materia perché l’intero arco esistenziale del biografato è pieno di punti oscuri e segnali inquietanti: dall’indissolubile matrimonio con Antonietta, che al culmine di una delirante conflittualità fu confinata vita natural durante in una clinica sulla Nomentana, all’attaccamento geloso del drammaturgo per la figlia, tale da suscitare nella madre e moglie un orribile e patologico sospetto di incesto. Senza parlare di una passione sbocciata alle soglie della terza età, fonte di ulteriori tormenti, per l’attrice Marta Abba, che si comportò da musa impietosa. Su fonti di prima mano d’Amico avrebbe potuto imbastire svariate illazioni, ma ha preferito far emergere dalle opere del siciliano le palesi od occulte risonanze autobiografiche; e se è vero che la critica è l’arte del citare, egli si rivela un esegeta acuto. A volte nei testi basta cambiare una parola per farne emergere scottanti verità: vedi la protagonista vulnerata dei Sei personaggi in cerca d’autore, che da Figlia (quale fu nella realtà) diventa pudicamente Figliastra; o quella di Diana e la Tuda, scritta per Marta, una giovane modella che invano si proferisce a un vecchio scultore. In questo libro si ha ogni tanto l’impressione che sia Pirandello stesso a confessarsi anche nelle contraddizioni, nelle impennate di brutto carattere, nel fascismo cinicamente sbandierato (quel telegramma di solidarietà al Duce nei giorni del delitto Matteotti!) ma poco sentito. Tant’è vero che, deluso dai vani tentativi di interessare Mussolini alla fondazione di un teatro nazionale, Luigi in morte si sottrasse beffardo ai funerali di Stato, facendosi portar via nel carro dei poveri. Arrivato in fondo a questa affannosa meteora letteraria, Luigi Filippo d’Amico ne trasmette pietosamente soprattutto i dolori: i tristi anni di miseria, la pazzia di Antonietta, i lanci di monetine per la prima romana nel ‘21 dei Sei personaggi, le grida di «Schluss!» (basta) dieci anni dopo a Berlino per Questa sera si recita a soggetto, le crudeltà di Marta e quel senso di amara solitudine del Maestro che né i figli né gli amici né lo scopone riuscirono a mitigare.
«Corriere della sera» dell’11 marzo 2007
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