Il critico riflette sulla tecnica, il rapporto con la realtà, la capacità umana di pensare la morte e la trascendenza
di George Steiner
Religione, filosofia e scienza hanno fallito. L’enigma della vita e di Dio resta lo stesso
Il nuovo saggio Le riflessioni malinconiche in libreria per Garzanti Il brano che pubblichiamo in questa pagina è tratto dall’ultimo capitolo di Dieci (possibili) ragioni della tristezza del pensiero, il nuovo saggio di George Steiner. Il volume è da oggi in libreria per l’editore Garzanti (traduzione di Stefano Velotti, pagine 90, euro 11) I «numeri primi» di cui tratta il pensiero sono costanti che circoscrivono la nostra umanità. Sono, o dovrebbero essere, di un’ovvietà suprema. Che cosa è «essere»? «Pensare l’essere» non è forse, come insiste Heidegger, il compito essenziale del pensiero? Discriminare tra le esistenze fenomeniche e la fatticità delle cose, da un lato, e il nucleo nascosto dell’essenza dell’essere (Seyn) stesso, dall’altro. Perché non c’è il nulla? Questa celebre domanda di Leibniz dovrebbe costituire, per gli atti di pensiero, una preoccupazione tanto primordiale e originale - che sorge, cioè, dalle nostre origini - quanto la stessa vita umana. Possiamo, contra Parmenide, pensare, concettualizzare il nulla? Può darsi che ogni tentativo di «pensare la morte» - un’espressione che suona disdicevolmente goffa in inglese -, pensare alla morte in maniera consequenziale, sia una variante dell’enigma del niente. Innumerevoli credenze, mitologie, fantasie di trascendenza sono elaborazioni di esperimenti mentali che vertono sulla morte. Lo zero, la riduzione del nostro essere a un vuoto sono per la maggior parte di noi «impensabili», sia nel senso emotivo sia in quello logico della parola. Da qui procede la complessa architettura del mito e della metafora (molte metafore sono concentrati di mito). Sempre in attività e in moto perpetuo, il pensiero umano sembra aborrire il vuoto. Genera archetipicamente finzioni di sopravvivenza più o meno consolatorie. Come un bambino spaventato fischia o urla nel buio, noi peniamo per evitare il buco nero del nulla. E lo facciamo anche quando gli scenari che ne risultano sono offensivamente puerili o semplicemente kitsch (quei campi elisi e quei cori celesti, quelle settantadue vergini che attendono i martiri per l’Islam...). Entrambe le sfere del pensiero, quella dell’essere e quella della morte, sono state interpretate come sottospecie degli sforzi senza fine dell’intelletto umano, della coscienza mortale, di pensare a, di «pensare» Dio. Di associare a questo bisillabo un’intelligibilità credibile. È plausibile che l’homo sia divenuto sapiens, e che i processi cerebrali siano evoluti al di là del riflesso e del mero istinto, quando sorse la questione di Dio. Quando i mezzi linguistici permisero la formulazione di quella domanda. È concepibile che le forme superiori di vita animale si avvicinino alla consapevolezza, al mistero della propria morte. La questione di Dio sembra essere propria della sola specie umana. Noi siamo le creature abilitate ad affermare o negare l’esistenza di Dio. Noi abbiamo avuto i nostri inizi spirituali «nella Parola». Il credente fervente e l’ateo categorico condividono una comprensione del problema. L’agnostico esitante non nega la questione. La semplice pretesa di non aver mai sentito parlare di Dio sarebbe sentita come assurda. L’esistenza e la morte, in quanto pertengono a «Dio», sono gli oggetti perenni del pensiero umano, laddove questo pensiero non è indifferente all’identità umana, alla nostra presenza in un certo mondo. Siamo - il famoso ergo sum - nella misura in cui ci sforziamo di «pensare l’essere», il «non essere» (la morte) e la relazione di queste polarità con la presenza o l’assenza, con la vita o la morte - espressione antropomorfica - di Dio. La parziale cancellazione di questa preoccupazione dagli affari pubblici e privati nelle tecnocrazie avanzate dell’Occidente, una cancellazione antagonistica alle rabbiose maree montanti del fondamentalismo, pervade la nostra attuale situazione politica e ideologica. Un agnosticismo tollerante richiede maturità ironiche, «capacità negative» (come le definiva Keats), che non è facile chiamare a raccolta. Le semplificazioni selvagge del fondamentalismo, sia esso degli islamisti o dei battisti del Sud degli Stati Uniti, sono in marcia. Ma resta un fatto, schiacciante: quale che sia la sua statura, la sua concentrazione, il suo slancio al di sopra dei crepacci dell’ignoto, quale che sia il suo genio esecutivo della comunicazione e della messa in atto simbolica, il pensiero non si avvicina maggiormente all’apprensione dei suoi oggetti primari. Rispetto a Parmenide o a Platone, noi non ci siamo avvicinati di un centimetro a una qualsiasi soluzione verificabile dell’enigma della natura - o dello scopo, se ce n’è uno - della nostra esistenza in questo universo probabilmente multiplo, alla determinazione della definitività o meno della morte e alla possibile presenza o assenza di Dio. Potremmo anche essercene allontanati. I tentativi di «pensare», di «pensare fino in fondo» questi problemi per mettere al riparo una risoluzione giustificativa o esplicativa hanno prodotto la nostra storia religiosa, filosofica, letteraria, artistica e, in una certa misura, scientifica. Questi tentativi hanno impegnato i migliori intelletti e le migliori sensibilità creative del genere umano - un Platone, un sant’Agostino, un Dante, uno Spinoza, un Galileo, un Marx, un Nietzsche o un Freud. Hanno generato sistemi teologici e metafisici affascinanti, per la loro sottigliezza, e suggestivi, per la loro forza propositiva. Le nostre dottrine, la poesia, l’arte e la scienza sono state attraversate, prima della modernità, da domande pressanti sull’esistenza, la mortalità e il divino. Astenersi da questo domandare, censurarlo, sarebbe cancellare la specifica condizione e dignitas della nostra umanità. È la vertigine del domandare che attiva una vita esaminata. In ultima analisi, comunque, non andiamo da nessuna parte. Per quanto possiamo essere ispirati, «pensare l’essere», «pensare la morte», «pensare Dio» sfocia in immagini più o meno ingegnose, di portata o di ricchezza semantica più o meno grande: in «verbosità», si potrebbe anche dire. Per quanto riguarda il loro risultato concreto, la danza aborigena intorno al totem e la summa di Tommaso, il voodoo e Plotino sulle emanazioni, mettono in atto, comunicano miti che condividono analogie più che accidentali. Non producono alcuna prova. A dire il vero, la storia degli sforzi che si sono succeduti per provare l’immortalità o l’esistenza di Dio costituiscono una delle cronache più imbarazzanti della condizione umana. L’agilità del pensiero, la sua inesauribile propensione alla narrativa, conduce alla conclusione umiliante, quasi esasperante, che «qualsiasi cosa va bene». Per milioni di persone, Dio si pettina la sua barba bianca ed Elvis Presley è risorto. Nessuna confutazione è assiomaticamente possibile. La verificabilità, la falsificabilità delle scienze, il loro progresso trionfante dall’ipotesi all’applicazione, costituiscono il prestigio e il crescente dominio che esercitano nella nostra cultura. Ma in un altro senso, ciò costituisce anche la loro sovrana trivialità. La scienza non può dare alcuna risposta alle questioni quintessenziali che ossessionano o che dovrebbero ossessionare lo spirito umano. Wittgenstein lo ha sottolineato con insistenza. La scienza può soltanto negarne la legittimità. Indagare sul nanosecondo che ha preceduto il Big Bang è - ci viene assicurato ex cathedra - un’assurdità. Tuttavia siamo creati in modo tale che indaghiamo comunque, e potremmo trovare molto più persuasiva la congettura di sant’Agostino che quella della teoria delle stringhe. È immensamente difficile immaginare a che cosa assomiglierebbero le mappe della mente e le totalità che essa abita, che cosa sarebbe il nostro alfabeto di riconoscimenti se il problema di Dio venisse a perdere il suo significato. Nessuna retorica della «morte di Dio», nessuna erosione della religione nei supermarket dell’Occidente si avvicina a un’eclissi della possibilità di Dio nel senso stesso della nostra coscienza. Fino a oggi, l’ateismo si è impegnato impetuosamente con Dio. Se anche questo impegno negativo recedesse da ogni seria consapevolezza, le scienze pure e applicate potrebbero, presumibilmente, continuare la loro avanzata. Se le scienze umane, nel senso più lato, possano fare lo stesso, non è altrettanto chiaro (il genio di Beckett ha trovato l’espressione allegorica precisamente per questa incertezza). Intanto, non è l’argomentazione filosofica o teologica che spinge il pensiero ai limiti estremi dei suoi indispensabili «vicoli ciechi», sempre nuovamente percorsi. Credo che a farlo sia la musica, questo tormentoso medium dell’intuizione rivelata al di là delle parole, al di là del bene e del male, in cui il ruolo del pensiero, per quanto possiamo afferrarlo, resta profondamente elusivo. Pensieri troppo profondi non tanto per le lacrime, ma per il pensiero stesso. Può darsi che Sofocle abbia detto tutto nell’ode corale sull’uomo dell’Antigone. La padronanza del pensiero, della velocità perturbante del pensiero esalta l’uomo al di sopra di tutti gli altri esseri viventi. Ma lo lascia straniero a sé stesso e all’enormità del mondo.
(Traduzione di Stefano Velotti)
L’autore George Steiner (Parigi 1929) ha studiato fisica a Chicago prima di dedicarsi a studi umanistici. Ha insegnato letteratura in varie università, tra cui Oxford e Ginevra.
«Corriere della sera» dell’8 marzo 2007
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