«Con te sorride il mio cuore» è uscito in Germania nel 2003 e arriva adesso in Italia con una toccante presentazione di Antonia Arslan
di Domizia Carafòli
Tutti oggi conoscono la parola Shoah. Anche i bambini. Nessuno conosce la parola sevkiyet. Né bambini né adulti. Sevkiyet è la grande deportazione degli armeni di Anatolia avvenuta nel 1915, che provocò un milione e mezzo di morti. I discendenti dei sopravvissuti la chiamano anche Metz Yeghèrn, il Grande Male. Ora si può disquisire, come fanno alcuni, se il massacro della minoranza armena venuta a trovarsi entro i confini dello Stato nazionale turco, sia da considerarsi o meno un genocidio. Fatto sta che gli armeni di Turchia vennero prelevati dalle loro case e massacrati sul posto. Le loro abitazioni vennero depredate, le loro chiese date alle fiamme. Gli altri morirono durante le terrificanti marce forzate per raggiungere i luoghi della deportazione. Gli scampati fuggirono per il mondo, in una diaspora ignorata. Non sarà stato un genocidio, ma oggi dei circa due milioni di armeni che vivevano in Anatolia nel 1915 ne sono rimasti sessantamila.
Gli altri, come accadde agli ebrei, non sono più tornati. Agli armeni che sono rimasti nel Paese dove sono nati e a cui sentono di appartenere - la Turchia - è accaduto qualcosa di apparentemente meno tragico ma ugualmente doloroso: hanno dovuto nascondere o addirittura cancellare la propria identità. Per sopravvivere le donne si sono sposate con turchi musulmani (talvolta addirittura con gli assassini dei propri mariti e fratelli), altri si sono convertiti all’Islam, hanno cambiato i propri nomi, di giorno vanno in moschea, di notte recitano le loro preghiere cristiane. Questo non è bastato a proteggerli. Perché, fra le due guerre e poi nel dopoguerra e fino a oggi, mentre la civile Europa prendeva atto e giustamente si sdegnava per la persecuzione antiebraica, gli armeni hanno continuato ad essere perseguitati e discriminati in patria. Sono cittadini-ombra, i «giaurri» da sempre disprezzati. «Gli armeni - scrive Antonia Arslan, l’autrice de La masseria delle allodole, il romanzo sulla tragedia armena - sono un non-popolo, e possono essere accettati solo se si nascondono, se negano la loro identità. Non sta bene parlare di loro, nominarli è un tabù che tutti badano a non infrangere, dato che anche la minima allusione può creare disagio e imbarazzo».
Queste parole Antonia Arslan le ha scritte nella presentazione dell’edizione italiana di un singolare romanzo-documentario che ha anche avuto un singolare (ed emblematico) destino: Con te sorride il mio cuore (Edizioni Lavoro, pagg. 401, euro 18). L’autore, Kemal Yalçun, è un turco nato nel 1952 a Honaz, ex giornalista, che dal 1981 si è trasferito in Germania dove è insegnante di lingua turca a Bochum. Il titolo da romanzo rosa non deve trarre in inganno, perché il libro di Yalçun è in realtà un «Viaggio tra gli armeni nascosti di Turchia», come recita il sottotitolo. A Yalçun non interessano verità ufficiali né conteggi dei morti, non statistiche né relazioni. A Yalçun interessano le storie delle persone. Durante una vacanza estiva è tornato in Turchia e, invece di andare al mare col figlio, ha preso una serie infinita di autobus e ha percorso l’interno del suo Paese - da Amasya a Erzurum, da Askale a Merziforn - andando sulle tracce degli ultimi sopravvissuti alla sevkiyet, dei loro figli e nipoti, e di tutti gli «armeni nascosti».
All’origine del viaggio, un motivo insieme sentimentale e morale: la risposta datagli da una bella insegnante di turco di cui si è palesemente innamorato durante un corso di formazione per docenti. Saputo che Meline è di origine armena, Kemal le chiede perché durante il corso di letteratura non abbia mai citato una poesia, un racconto, una fiaba armena. Spiazzante la risposta della donna: «Mio caro, perché forse me lo avete chiesto?... Ho insegnato a circa centocinquanta docenti. Non ce n’è stato uno che abbia detto: “Meline, tu sei armena. Hai la tua lingua, la tua religione, le tue usanze, la tua cultura...”. Come avrei potuto raccontare una fiaba armena se, all’inizio del nostro corso, uno di voi ha sporto una lamentela nei miei confronti al ministero della Cultura, chiedendo come un’armena potesse insegnare turco a insegnanti di turco?».
È per questo che Kemal Yalçun si è messo in viaggio. Per dare una risposta a Meline. Ha dovuto rompere con fatica il muro di paura, omertà e diffidenza che i turchi oppongono a chiunque voglia riportare in vita la memoria armena. Ma ha potuto raccogliere decine di testimonianze dirette: storie di massacri e di fughe, ma anche storie di famiglie turche e curde che al tempo della persecuzione nascosero e aiutarono i perseguitati. Sono «i giusti» del popolo turco.
Yalçun ha anche rievocato il dramma di coloro che, non reggendo alle sofferenze, si suicidarono. E ha raccontato la tragedia di Veli Dede, il ragazzo che annegò nell’Eufrate il fratellino, in fin di vita per quella che veniva chiamata la «malattia armena», una dissenteria altamente contagiosa che colpiva i deportati, debilitati dalla denutrizione e dagli stenti.
Quello che sicuramente pochi hanno saputo - e che il libro di Kemal Yalçun denuncia - è che la persecuzione anti-armena non si esaurì nelle uccisioni di massa e nelle proscrizioni avvenute tra il 1915 e il 1923. Circa vent’anni dopo, nel 1942, una spietata legge tributaria, la famigerata «patrimoniale», impose ai cittadini turchi non musulmani - greci, armeni ed ebrei - una tassa straordinaria talmente elevata che molti non furono in grado di pagarla. Chi non pagò venne deportato sui monti intorno a Erzurum, capitale dell’Anatolia orientale, a circa duemila metri di altitudine. E lì, in pieno inverno, venne costretto a spalar neve nel gelo. Morirono a centinaia di freddo e fatica, soprattutto i più anziani, non avvezzi alle fatiche. «La mattina - racconta un vecchio turco a Yalçun - gli davano in mano il badile... Ho visto con i miei occhi le dita congelate che si staccavano».
La discriminazione continua nella Turchia odierna. La testimonia Yakub che a Istanbul ha vinto il concorso per dattilografi del tribunale ma non viene assunto perché armeno. La paura divide i turchi armeni dai propri connazionali anche nei Paesi dell’emigrazione: lo racconta Sultan, l’infermiera che in Germania viene evitata dalle colleghe turche e che quando torna in patria dice di essere musulmana per non essere emarginata.
Continuare a nascondersi. Ancora oggi. «Dov’è finita - si domanda Antonia Arslan - la meravigliosa Anatolia in cui armeni, greci, turchi, curdi, siriaci, ebrei vivevano fianco a fianco? Le risposte che Kemal riceve - prosegue la scrittrice - piano piano tracciano il quadro di un Paese mutilato e complesso, dove tutti sanno, ma hanno due lingue, una per l’esterno e una familiare, privata, e due verità che fra loro si ignorano».
Il libro di Kemal Yalçun è stato stampato nel dicembre 2000 dall’editore turco Dogan. La distribuzione sarebbe dovuta iniziare il 15 gennaio 2001. Ma il giorno 12 l’autore ricevette una comunicazione dalla casa editrice: «Pressioni dall’alto ci impediscono, per il momento, di procedere alla distribuzione». Pochi mesi dopo lo stesso editore informò Yalçun di avere distrutto tutte le copie. Il libro è stato pubblicato in Germania nel 2003.
Gli altri, come accadde agli ebrei, non sono più tornati. Agli armeni che sono rimasti nel Paese dove sono nati e a cui sentono di appartenere - la Turchia - è accaduto qualcosa di apparentemente meno tragico ma ugualmente doloroso: hanno dovuto nascondere o addirittura cancellare la propria identità. Per sopravvivere le donne si sono sposate con turchi musulmani (talvolta addirittura con gli assassini dei propri mariti e fratelli), altri si sono convertiti all’Islam, hanno cambiato i propri nomi, di giorno vanno in moschea, di notte recitano le loro preghiere cristiane. Questo non è bastato a proteggerli. Perché, fra le due guerre e poi nel dopoguerra e fino a oggi, mentre la civile Europa prendeva atto e giustamente si sdegnava per la persecuzione antiebraica, gli armeni hanno continuato ad essere perseguitati e discriminati in patria. Sono cittadini-ombra, i «giaurri» da sempre disprezzati. «Gli armeni - scrive Antonia Arslan, l’autrice de La masseria delle allodole, il romanzo sulla tragedia armena - sono un non-popolo, e possono essere accettati solo se si nascondono, se negano la loro identità. Non sta bene parlare di loro, nominarli è un tabù che tutti badano a non infrangere, dato che anche la minima allusione può creare disagio e imbarazzo».
Queste parole Antonia Arslan le ha scritte nella presentazione dell’edizione italiana di un singolare romanzo-documentario che ha anche avuto un singolare (ed emblematico) destino: Con te sorride il mio cuore (Edizioni Lavoro, pagg. 401, euro 18). L’autore, Kemal Yalçun, è un turco nato nel 1952 a Honaz, ex giornalista, che dal 1981 si è trasferito in Germania dove è insegnante di lingua turca a Bochum. Il titolo da romanzo rosa non deve trarre in inganno, perché il libro di Yalçun è in realtà un «Viaggio tra gli armeni nascosti di Turchia», come recita il sottotitolo. A Yalçun non interessano verità ufficiali né conteggi dei morti, non statistiche né relazioni. A Yalçun interessano le storie delle persone. Durante una vacanza estiva è tornato in Turchia e, invece di andare al mare col figlio, ha preso una serie infinita di autobus e ha percorso l’interno del suo Paese - da Amasya a Erzurum, da Askale a Merziforn - andando sulle tracce degli ultimi sopravvissuti alla sevkiyet, dei loro figli e nipoti, e di tutti gli «armeni nascosti».
All’origine del viaggio, un motivo insieme sentimentale e morale: la risposta datagli da una bella insegnante di turco di cui si è palesemente innamorato durante un corso di formazione per docenti. Saputo che Meline è di origine armena, Kemal le chiede perché durante il corso di letteratura non abbia mai citato una poesia, un racconto, una fiaba armena. Spiazzante la risposta della donna: «Mio caro, perché forse me lo avete chiesto?... Ho insegnato a circa centocinquanta docenti. Non ce n’è stato uno che abbia detto: “Meline, tu sei armena. Hai la tua lingua, la tua religione, le tue usanze, la tua cultura...”. Come avrei potuto raccontare una fiaba armena se, all’inizio del nostro corso, uno di voi ha sporto una lamentela nei miei confronti al ministero della Cultura, chiedendo come un’armena potesse insegnare turco a insegnanti di turco?».
È per questo che Kemal Yalçun si è messo in viaggio. Per dare una risposta a Meline. Ha dovuto rompere con fatica il muro di paura, omertà e diffidenza che i turchi oppongono a chiunque voglia riportare in vita la memoria armena. Ma ha potuto raccogliere decine di testimonianze dirette: storie di massacri e di fughe, ma anche storie di famiglie turche e curde che al tempo della persecuzione nascosero e aiutarono i perseguitati. Sono «i giusti» del popolo turco.
Yalçun ha anche rievocato il dramma di coloro che, non reggendo alle sofferenze, si suicidarono. E ha raccontato la tragedia di Veli Dede, il ragazzo che annegò nell’Eufrate il fratellino, in fin di vita per quella che veniva chiamata la «malattia armena», una dissenteria altamente contagiosa che colpiva i deportati, debilitati dalla denutrizione e dagli stenti.
Quello che sicuramente pochi hanno saputo - e che il libro di Kemal Yalçun denuncia - è che la persecuzione anti-armena non si esaurì nelle uccisioni di massa e nelle proscrizioni avvenute tra il 1915 e il 1923. Circa vent’anni dopo, nel 1942, una spietata legge tributaria, la famigerata «patrimoniale», impose ai cittadini turchi non musulmani - greci, armeni ed ebrei - una tassa straordinaria talmente elevata che molti non furono in grado di pagarla. Chi non pagò venne deportato sui monti intorno a Erzurum, capitale dell’Anatolia orientale, a circa duemila metri di altitudine. E lì, in pieno inverno, venne costretto a spalar neve nel gelo. Morirono a centinaia di freddo e fatica, soprattutto i più anziani, non avvezzi alle fatiche. «La mattina - racconta un vecchio turco a Yalçun - gli davano in mano il badile... Ho visto con i miei occhi le dita congelate che si staccavano».
La discriminazione continua nella Turchia odierna. La testimonia Yakub che a Istanbul ha vinto il concorso per dattilografi del tribunale ma non viene assunto perché armeno. La paura divide i turchi armeni dai propri connazionali anche nei Paesi dell’emigrazione: lo racconta Sultan, l’infermiera che in Germania viene evitata dalle colleghe turche e che quando torna in patria dice di essere musulmana per non essere emarginata.
Continuare a nascondersi. Ancora oggi. «Dov’è finita - si domanda Antonia Arslan - la meravigliosa Anatolia in cui armeni, greci, turchi, curdi, siriaci, ebrei vivevano fianco a fianco? Le risposte che Kemal riceve - prosegue la scrittrice - piano piano tracciano il quadro di un Paese mutilato e complesso, dove tutti sanno, ma hanno due lingue, una per l’esterno e una familiare, privata, e due verità che fra loro si ignorano».
Il libro di Kemal Yalçun è stato stampato nel dicembre 2000 dall’editore turco Dogan. La distribuzione sarebbe dovuta iniziare il 15 gennaio 2001. Ma il giorno 12 l’autore ricevette una comunicazione dalla casa editrice: «Pressioni dall’alto ci impediscono, per il momento, di procedere alla distribuzione». Pochi mesi dopo lo stesso editore informò Yalçun di avere distrutto tutte le copie. Il libro è stato pubblicato in Germania nel 2003.
«Il Giornale del 12 marzo 2007
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