La Lupa Capitolina di Anna Maria Carruba è un recente e utile libretto che costringe a ripensare all’opera. Alcune considerazioni tecniche spingono l’autrice a datare quel bronzo all’Alto-medioevo. Andrea Carandini interviene sul dibattito attorno all’età del capolavoro conservato nei Musei Capitolini
di Andrea Carandini
Bronzo medievale o etrusco? La Lupa, orgoglio dei Musei Capitolini, emblema indiscusso della città che nei suoi momenti d’entusiasmo l’ha voluta attribuire al celebre scultore etrusco Vulca, è ora al centro di un dibattito sulla sua età. Se ne è parlato in una «giornata di studio» al Museo d’arte classica «Odeion»: lì insieme ad archeologi (da Giovanni Colonna a Francesco Roncalli e Andrea Carandini) sono stati invitati storici, da Mario D’Onofrio a Lellia Gracco Ruggini. Riportiamo l’intervento dell’archeologo Andrea Carandini. La Lupa capitolina già assegnato alla prima metà del V secolo a.C. - viene quindi spostata dallo studio di Anna Maria Carruba all’alto-medioevo, in particolare quella relativa alla fusione «a cera perduta in un solo getto». Le leggi fisiche sono probabilistiche, e anche quelle desunte dalla tecnica, per cui si tratta di ipotesi, più o meno verosimili, non di verità assolute. La legge tecnica suddetta - per la quale la cera perduta a getto unico nei grandi bronzi sarebbe un’invenzione esclusivamente medievale - si basa su una statistica molto limitata, specialmente per l’età tardo-arcaica. D’altra parte si conoscono nella storia della tecnica scoperte, geniali o casuali, che non hanno avuto seguito, per cui soltanto secoli dopo sono state generalizzate (come la polvere da sparo in Cina). Constato inoltre che, a suo tempo (prima della medievalizzazione della Lupa), i restauratori della Chimera di Arezzo - bronzo indiscutibilmente antico - hanno interpretato la fusione di quel bronzo in modo opposto a quello che ora propone la Carruba, la quale peraltro onestamente scrive per essa di «ardua individuazione dell’originale procedimento di realizzazione». La conformazione raccolta di un quadrupede, con le zampe al medesimo livello, sembra prestarsi assai meglio alla fusione unica di una figura umana, più lunga e articolata, per cui nei casi di questi animali la fusione a getto unico parrebbe accettabile. Non è forse un caso che le possibili eccezioni alla legge tecnica della Carruba riguardino due quadrupedi. Non sarei tanto sicuro, come la Carruba, che la lupa non possa corrispondere ad alcuna notizia delle fonti letterarie. Potrebbe trattarsi della Lupa che in antico era sul Campidoglio, se solo i gemelli sottostanti fossero stati rivestiti d’oro; infatti sulla Lupa mancano tracce auree (si veda A.C., a cura di, La leggenda di Roma, Mondadori 2006) . Come che sia, ogni argomento tratto dal silenzio un argomento non è. Conosciamo inoltre un’altra lupa antica stante e con testa non rivolta all’indietro, come quella del denario di Satrienus del 77 a.C., che con mammelle rigonfie e crine rilevato tra collo e schiena presuppone, seppure alla lontana, la Lupa Capitolina. Dissento con l’interpretazione storico-artistica che la Carruba ci dà della lupa. Scrive di «forma lineare, legata, rigida, emblematica e astratta» e di «motivi svuotati di ogni intento naturalistico». Invece la Lupa è una creazione straordinariamente naturalistica, che imita la natura di una lupa «vera» ed anche le stilizzazioni del pelo sono, come vedremo, al servizio dell’anatomia. Questa tesi è bene argomentata in uno studio recente di Nadia Canu. Immaginare un’opera realisticamente e stilisticamente tanto straordinaria nella Roma dell’VIII secolo d.C. è impresa che rasenta l’impossibile. Nella «nuova Roma» e nel «nuovo Laterano» di Aquisgrana venne esposta - per volere di Carlo Magno, che la nostra Lupa aveva visto in Roma - un’orsa bronzea romana di ottima fattura, presa per una lupa, il che è quanto mai significativo sulla sensibilità artistica medievale che con i simboli vinceva ogni realtà. È finito il tempo della naturalis historia dell’età classica, basata sulla classificazione proto-scientifica di vegetali e animali, e comincia quello degli animali fraintesi e fantasiosi, privi di ogni intento naturalistico. Si pensi alla faina coccodrillesca più che lupesca del dittico di Ratisbona del 900 d.C. circa, al mostruoso leone di Hildesheim del 1015 che ha il volto di un pipistrello, al maestoso ma goffo leone di Braunschweig del 1166, che sembra di pezza e ricorda il felino del Mago d’Oz, fino ai più tardi leoni stilòfori, come quello del Duomo di Parma, che anelano tristemente a una liberazione impossibile dalla pietra appena squadrata. Certo, la Lupa Capitolina - tra i rarissimi grandi bronzi sempre esposti e superstiti, con il Marco Aurelio - raggiunge la sua massima fortuna proprio dall’VIII secolo d.C., per cui diventa il modello di ogni successiva medievale ferinità. L’unica somiglianza della Lupa con i leoni medievali sta nel dettaglio iconografico delle ciocche di peli sul dorso, ma nella Lupa esse sono abilmente intrecciate e alternate, mentre nei leoni sono banalmente discriminate e disposte a coppie; né va tralasciata la ripetizione incongrua dello stesso motivo lungo le zampe posteriori di quei felini. Nei leoni la caratteristica del crine, che presenta in natura questi intrecci speciali sopra il dorso, viene tradita. La stilizzazione tardo-arcaica si mette invece al servizio dell’anatomia. La stilizzazione medievale viola ogni naturalismo, per rappresentare animali metafisici, blasonati da motivi antichi e fraintesi, di straordinariamente lunga durata. Ciocche per ciocche, bastano alcuni confronti stilistici con bronzi e terrecotte etruschi e laziali - databili tra la seconda metà del V e la prima metà del IV secolo a.C. e quindi di poco più tardi della Lupa - per consentirci di argomentare nuovamente con forza che la Lupa Capitolina è un’opera d’arte etrusco-romana della prima metà del V secolo a.C. . Occorre presupporre un’intera tradizione artistica di naturalismo animalistico alle spalle della nostra Lupa, che per quanto relativamente isolata, dal nulla certo non può nascere (lacunare di Tarquinia, idrie ceratane, protomi in oro etrusche del Cabinet des Mèdailles di Parigi, protome della tomba dell’Orco II di Tarquinia, Lupo della tomba François di Vulci; per non parlare dei cani nella ceramografia e nella scultura greca). Un possibile archetipo greco, della seconda metà del VII secolo e attestato a Veio, si trova nel leone dell’Olpe Chigi, che ha dorso e criniera cosparso proprio di quelle ciocche di cui fin qui si è trattato. Al contrario il Medioevo non ha offerto - almeno fino ad ora - alcun confronto che soddisfi dal punto di vista stilistico. È dunque proprio grazie alle considerazioni della Carruba che mi sono convinto nuovamente che la Lupa è un’opera che a Roma ricordava la leggenda della fondazione, al tempo quanto mai oscuro che si concluse con le XII Tavole: una probabile committenza patrizia ad un artigiano che potrebbe anche essere di Veio, in quel tempo floridissima. Da un qualche tempo la lettura stilistica è stata dichiarata inefficace, demodée; ma di questo passo si rischia di assolutizzare ipotesi tecniche - comunque interessanti eppur non decisive - impigrendo l’occhio fino al punto da non riuscire più a distinguere le forme artistiche e da confonderle con meri dettagli iconografici. Resta il fatto che ogni singolo punto di vista - anche il mio - è parziale, probabilistico e pertanto soggetto ad errori. Siamo abbastanza maturi nel mestiere per non aver bisogno di certezze assolute, basate su una presunta oggettività tecnica, che potrebbe rivelarsi illusoria. È invece consigliabile illustrare le ragioni per le quali crediamo un’ipotesi non assolutamente vera ma relativamente più probabile di un’altra. Conserviamo insomma un briciolo di dubbio - questo è l’invito che possiamo rivolgerci - ché la boria è sciocca.
«Corriere della sera» del 1 marzo 2007
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