Di Giovanni Belardelli
Negli ultimi giorni la scuola è entrata nelle cronache soprattutto per i casi di violenza di studenti e genitori contro professori e presidi (ma si è verificato anche, in qualche caso, l’inverso). E’invece scivolato nella disattenzione generale quel che è avvenuto a Catania, dove un gruppo di studenti del liceo Spedalieri ha scritto una lettera-manifesto ai propri docenti, ricevendo da preside e professori una risposta (anch’essa pubblicata sul quotidiano La Sicilia) che lascia davvero sgomenti. Il documento degli studenti partiva da una drammatica riflessione sulle violenze del 2 febbraio, in cui venne ucciso l’ispettore Raciti, per interrogarsi sull’assenza di valori nella quale sentono di vivere, sulla totale mancanza di punti di riferimento che li porta a sentirsi «soffocati dal nulla». E terminava, quella lettera, con una richiesta drammatica: «Abbiamo bisogno che qualcuno ci aiuti a trovare il senso del vivere e del morire, qualcuno che non censuri la nostra domanda di felicità e di verità». Intendiamoci: la lettera vergata dai docenti catanesi va letta con la consapevolezza di quanto sia difficile per chiunque oggi, insegnante e non, provare a rispondere a interrogativi tanto fondamentali. Ma ciò che rende terribile quella lettera è il nichilismo pedagogico che sembra ispirarla, il fatto cioè che professori e professoresse vi sostengano che la scuola, loro stessi dunque, risposte non debbono neanche provare a darne. La scuola, secondo loro, dovrebbe infatti limitarsi a «stimolare domande»; quanto al «senso della vita», che nella loro lettera quasi disperata gli studenti dichiaravano di aver perso o non aver mai trovato, ebbene, che ciascuno cerchi da solo le «risposte adeguate al proprio percorso». Invece di rallegrarsi che un fatto drammatico abbia spinto un gruppo di studenti a interrogarsi sul senso del vivere, a porsi le domande essenziali, ebbene gli insegnanti li invitano puramente e semplicemente a piantarla: «Proporvi, o imporvi, delle verità è integralismo, cioè barbarie, e pertanto questo atteggiamento non può avere luogo nella scuola pubblica, cioè democratica e laica». Si notino le assurdità contenute in questa frase: la coincidenza tra proporre e imporre, l’idea secondo la quale la laicità corrisponderebbe alla assenza di qualunque valore, principio, credenza. Ma sono assurdità che molti insegnanti italiani, temo, ormai non considerano affatto tali. Contemporaneamente il documento dei docenti di Catania è un perfetto riassunto di quella vera e propria ideologia del dialogo e dell’ascolto - a base di «rispetto dell’altro e delle differenze», di «solidarietà», di «rigetto di ogni forma di prevaricazione» - con cui la scuola italiana si illude di ovviare alla sua incapacità di trasmettere valori e norme di vita. Non c’è ormai istituto scolastico, credo, in cui non vi siano in atto progetti multiculturali, per insegnare appunto a rispettare l’altro, a rifiutare la prevaricazione e via elencando. Tutte intenzioni buonissime, figuriamoci; ma il punto è che non si vede quale incontro con l’altro possa mai avvenire, quale dialogo possa mai instaurarsi, se non a partire da un riconoscimento, problematico quanto si vuole, critico quanto si vuole, di propri valori e di una propria cultura. Una scuola e una società che non ritengano di aver nulla da salvare nella propria tradizione e nella propria storia, nulla che meriti d’essere proposto se non una generica disposizione all’ascolto e all’apprezzamento indifferenziato (e in fondo indifferente) di tutto e di tutti, su quale base mai incontrerà l’«altro»? Qualche mese fa, bastò che dieci o venti studenti occupassero un noto liceo della Capitale perché subito il ministro Fioroni si precipitasse da loro per sentire cosa avessero da dire. Forse, ci permettiamo di osservare, sarebbe opportuno che ora facesse almeno lo stesso con gli studenti di Catania, magari per spiegar loro che non è vero, o non lo è sempre, che la scuola «pubblica», «democratica» e «laica» debba essere, puramente e semplicemente, una scuola in cui si insegna a non credere a nulla.
«Corriere della sera» del 9 marzo 2007
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