Non fu solo la Dc a mettere all’indice le opere sgradite Il «libretto nero» della sinistra ora torna alla luce
Di Ranieri Polese
Nel 1952 un opuscolo ispirato dal Pci indicava le pellicole da non vedere
Film da vedere e da non vedere. L’Indice è una tradizione antica. Per secoli è stato appannaggio dei cattolici; i quali, per il cinema, si erano attrezzati già negli anni 30 con quel Centro Cattolico Cinematografico (CCC) che non ha più smesso di compilare schede e stilare giudizi. Ma allora, nel 1952 - penultimo anno del Quinquennio degasperiano - anche a sinistra si pensa di fare qualcosa di analogo. Compare così un opuscolo dal titolo Guida per le proiezioni cinematografiche popolari, 51 pagine senza indicazione di autori né di provenienza, ma certamente vengono direttamente dal Pci. Ci sono le liste di film buoni (quelli con l’asterisco lo sono di più: tutto De Sica da Sciuscià a Umberto D, tutto De Santis, da Caccia tragica a Riso amaro e Roma ore 11, Achtung banditi di Lizzani, La terra trema e Bellissima di Visconti, Il sole sorge ancora di Vergano, Guardie e ladri di Steno e Monicelli, mentre Rossellini compare solo con Roma città aperta e Paisà), passabili (commedie come Totò cerca casa, Sogni proibiti, Giorno di festa, Sangue blu) e assolutamente sconsigliati (25 titoli fra cui spicca Ninotchka accanto a due film sulla guerra in Corea di Sam Fuller). C’è molto cinema americano (western, gangster, film sui penitenziari: il «volto amaro» degli Usa), e una sezione di titoli sovietici di epoca staliniana (Il giuramento di Ciaureli, Gherasimov, Donskoj). L’opuscolo ha, immediatamente, uno scopo pratico: dice dove reperire le pellicole, come tenere rapporti con gli esercenti, la S.I.A.E., la Pubblica sicurezza ecc. Ma è anche il modo per sottolineare l’importanza del cinema «come mezzo di propaganda e di cultura» per le grandi masse popolari. Insomma, riproponendo una frase di Lenin del 1922 - «Il cinema di tutte le arti per noi è la più importante» - si passa alla «battaglia delle idee», ai problemi della «educazione» del pubblico e della «difesa del buon cinema e del cinema nazionale». Per buon cinema s’intendono i «migliori film realistici italiani e stranieri». Che sono «l’avanguardia di una cinematografia che crede in un’umanità nuova, in un mondo pacifico in cui sia scomparso per sempre lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, in cui l’arte, il cinema, la cultura possano essere un mezzo per la liberazione dell’uomo dal bisogno, dall’ignoranza, dalla superstizione». In questa prospettiva le opere italiane del neorealismo stanno insieme con i film sovietici. Anche perché entrambi hanno bisogno di sostegno nella «guerra» che il governo ha scatenato contro di loro. «Tanto più importante è questa azione in un momento come l’attuale, in cui gli imperialisti americani vorrebbero trasformare il cinema in un mezzo per la propaganda di una nuova guerra e della divisione dei popoli». Dal giugno del ‘51, si ricorderà, l’America è impegnata nella guerra di Corea. E l’azione del governo, già molto intensa con le commissioni di censura, ha appena dato il suo maggiore exploit nel febbraio del ‘52. Con l’attacco di Andreotti - sul periodico dc Libertas - contro Umberto D, che squalificava l’Italia all’estero. De Sica e gli altri neorealisti, insomma, avrebbero fatto meglio a «lavare i panni sporchi» in casa. Guerra fredda, schermi caldi. «La Guerra fredda è stata una cattiva scuola» ricorda Mino Argentieri, storico del cinema, per anni critico di Rinascita. All’epoca era uno dei responsabili a Roma del Circolo Charlie Chaplin, e fornì ai compilatori dell’opuscolo i dati sui noleggiatori, esercenti ecc. «C’era molta faziosità, da una parte e dall’altra. Per esempio, la Cineteca nazionale di Roma non dava i film a noi di sinistra. Per questo ci rivolgevamo alla Cineteca italiana di Milano di Lattuada e Comencini. Dal ‘49, il governo aveva dato un giro di vite per i visti di censura e i finanziamenti. Anche la Chiesa non scherzava: dopo la scomunica del ‘49 contro i comunisti e i loro simpatizzanti, ci furono molti altri episodi. Si proibivano la Mandragola di Machiavelli, le riproduzioni dei nudi d’arte come la Venere di Botticelli. Tendenze talebane, davvero. L’idea della sinistra non solo comunista era quella di difendere i film sotto attacco, quelli più deboli sul mercato. La terra trema, per esempio: gli esercenti non lo volevano. Per farlo vedere si dovevano organizzare proiezioni speciali». I dimenticati. Però, scorrendo gli elenchi dell’opuscolo si notano assenze non da poco. Manca del tutto Hitchcock (Rebecca e Notorious, per esempio); di Billy Wilder si dimenticano La fiamma del peccato e Viale del tramonto. Tra i film sovietici manca totalmente Eisenstejn. Perché? «Qui niente censure. Solo il fatto che le pellicole di Eisenstejn non si trovavano nella distribuzione ordinaria. Copie di quei film arrivano sul mercato solo negli anni 60. Qui va chiarito che le proiezioni di cui parla l’opuscolo sono affidate a gruppi di Amici del cinema, non ai Circoli riconosciuti, con tanto di statuto e soci tesserati. Gli Amici del cinema potevano proiettare solo film con il visto di censura, ricorrendo alla distribuzione ordinaria». Per i film italiani, il criterio di scelta era sostanzialmente il neorealismo. «Ma erano quelli i film italiani più nuovi. Non c’erano alternative. Del resto, il concetto di realismo impiegato nell’opuscolo era molto vasto: c’è pure Totò cerca casa». Ma poi c’è il caso Rossellini: perché mancano Francesco giullare di Dio, Stromboli e perfino Germania anno zero? «Una chiusura dogmatica da parte comunista, è vero; ma del resto, Rossellini si era molto avvicinato ad ambienti cattolici non certo progressisti. Collaborando con padre Félix Morlion, uno degli sceneggiatori di Francesco, vicino ai comitati di Gedda, forse legato ai servizi segreti Usa. I film di Rossellini di questo periodo, interessati a tematiche spirituali, sono belli e importanti. All’epoca però si ragionava in termini di fronte contro fronte. Così come, pochi anni dopo, si sarebbe mal giudicato il Fellini de La strada. Peccati gravi, certo, ma i tempi erano quelli. E il Partito, in questo, mostrava la sua contraddittorietà: il suo impegno pedagogico, da un lato, serviva ad aprire la mente; dall’altra imponeva chiusure che solo dopo il ‘56 avremmo cominciato a giudicare».
«Corriere della sera» del 28 febbraio 2007
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