La Corte Suprema giapponese condanna un’insegnante: non ha cantato l’inno nazionale
Di Paolo Salom
Il ministro dell’Educazione: sono stati imposti dagli Usa
Schiena dritta e voce tonante. Nelle scuole l’inno va cantato (e suonato): pena, il licenziamento. Tempi duri per i diritti umani in Giappone. La Corte Suprema di Tokio ha stabilito ieri che è «inammissibile rifiutarsi di intonare o accompagnare con la musica» il Kimigayo, ovvero «Il regno di Sua maestà l’Imperatore», come è conosciuta la melodia che ogni giorno gli studenti - e i loro insegnanti - sono tenuti a ripetere, ritti in piedi, le uniformi inamidate, il viso rivolto alla Hinomaru, la bandiera bianca con un sole rosso al centro. Come se non bastasse, il ministro dell’Educazione, Bunmei Ibuki, ha tuonato contro «l’invadenza» dell’individualismo occidentale, minaccia alla «purezza» giapponese. Il ministro ha pronunciato a Nagasaki un discorso che rischia di scontentare sia gli alleati sia i vicini asiatici, da tempo sul chi vive di fronte a una Tokio «revanscista»: prima ha affermato che l’accento sui diritti dell’individuo in stile occidentale ha danneggiato il Paese e poi che la forza dei giapponesi sta proprio nella loro «omogeneità razziale». Non contento, ha denunciato «l’imposizione da parte degli Stati Uniti del rispetto dei diritti umani», affermando che «sono importanti nella società a patto che non si esageri». Perché allora «diventano una malattia». La Corte Suprema sembra peraltro averlo preso in parola. La sentenza emessa ieri pone fine al ricorso di un’insegnante di musica che aveva fatto causa al dipartimento dell’Educazione di Tokio, dopo aver ricevuto un richiamo ufficiale (al terzo si perde il posto) per non aver voluto accompagnare al pianoforte l’inno nazionale. La maestra elementare, di 53 anni, aveva sostenuto che l’obbligo di cantare l’inno - ripristinato nel 2003 in tutte le scuole del Sol Levante - «andava contro la libertà di pensiero e coscienza garantita dalla Costituzione». La Corte Suprema ha invece accolto la tesi contraria e cioè che «non viola la Costituzione l’ordine impartito da un preside a un insegnante affinché accompagni l’esecuzione dell’inno nazionale». Il pronunciamento dei giudici avrà un impatto certo su centinaia di analoghi procedimenti intentati negli ultimi tre anni dagli insegnanti che hanno ricevuto lettere di richiamo come la maestra elementare. Tutti si erano rifiutati di cantare la canzone dedicata all’imperatore: «Possa tu godere di migliaia di anni di regno felice, governa, mio signore, finché quelli che oggi sono ciottoli col tempo si trasformeranno in rocce possenti le cui venerabili forme il muschio ricoprirà». Parole che un tempo i soldati cantavano dopo ogni vittoria in battaglia. E che a molti, oggi, ricordano i tempi di un Giappone aggressivo e militarista. Ma che, nella visione del premier Shinzo Abe, possono invece accompagnare la crescita internazionale del Paese. Lo sforzo del premier che ha sostituito Koizumi è forse strumentale. Nel senso che - di fronte all’opposizione del sindacato insegnanti (di sinistra) e alla fronda (interna al Partito liberal-democratico) dei molti delusi da un capo di governo finora tentennante e di scarso carisma - Abe cerca di conquistare il cuore profondo della nazione. Ma anche in questo, il premier è riuscito a scontentare tutti. E a farsi scavalcare a destra da un ministro del suo governo: Bunmei Ibuki, proprio il titolare del dicastero dell’Educazione.
«Corriere della sera» del 28 febbraio 2007
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