Scienza e tecnica non bastano a creare il progresso: «L'Europa ha decollato col diritto e la teologia». Parla il filosofo Brague
di Daniele Zappalà
«L'Europa non ha digerito ciò che riceveva dalle altre culture, ma l'ha incluso. Ha riconosciuto il suo debito e ha conservato la coscienza di ciò che prendeva in prestito». Per il filosofo francese Rémi Brague si tratta della mossa vincente che ha innescato lo sviluppo europeo. Un riferimento utile da tenere a mente.
Professore, lei sostiene che il confronto con le altre culture è stato decisivo per l'Europa. In che senso?
«Tutte le civiltà hanno ricevuto dall'esterno. Ma l'originalità dell'Europa riguarda principalmente tre aspetti. Anzitutto, ciò che assorbiva, ad esempio la cultura greca, non è stato assimilato, ma integrato salvaguardando un certo carattere di estraneità. Così gli eruditi europei non hanno semplicemente fatto tradurre i testi greci, hanno appreso la lingua. In seguito, l'Europa ha dato prova di curiosità verso le altre civiltà; fin dal XIII secolo ha divorato racconti di viaggiatori in Paesi lontani. Infine, l'Europa si è chiesta ciò che gli altri pensavano di lei. Anzi, ciò che potevano insegnarle sulla sua stessa natura. Ha cercato di osservare attraverso altre lenti. E ciò molto prima di Montesquieu o dello stesso Colombo, fin dal XV secolo».
Ora la globalizzazione richiede all'Europa nuove integrazioni?
«La globalizzazione non esige né di trattenere ciò che si ha, né di gettarsi ingenuamente su quanto giunge da lontano. Occorre piuttosto interrogarsi su ciò che è bene o è male, che sia nostro o di un'altra cultura».
La globalizzazione viene associata al rischio di un'omogeneizzazione culturale. L'Europa saprà evitarla?
«Una certa uniformizzazione è innegabile. Ma occorre distinguere. Le boutiques degli aeroporti sono più o meno dappertutto le stesse. Al contrario, la cultura popolare non scompare più, o quanto meno vegeta nella formula del folklore. L'Europa non manca di risorse nel resistere a un'omogeneizzazione che avanza in gran parte a suo vantaggio, ma piuttosto per cessare di odiarsi e per voler vivere. L'omogeneizzazione non è una causa, è un effetto: si cerca di confondersi nella massa quando si ha voglia di scomparire».
L'epoca ellenistica avvicinò l'Asia al Mediterraneo. Oggi l'ascesa economica di Cina ed India accentua gli scambi fra Asia e Europa. Ci avviciniamo al vecchio sogno politico di Leibniz di un «matrimonio» ideale fra Oriente e Occidente?
«Tutto cominciò con Alessandro Magno, che spinse l'ellenismo fino all'Indo. I Romani dovettero confrontarsi coi Parti. Poi, la conquista araba s'interpose come un cuneo fra Mediterraneo ed Estremo Oriente e l'islam recuperò i circuiti commerciali Est-Ovest fino all'epoca di Vasco de Gama, che ristabilì il contatto circumnavigando l'Africa. Il sogno di Leibniz era legato all'infatuazione ingenua della sua epoca per la Cina, le sue porcellane, la sua saggezza. Questo sogno fu ancora quello di Napoleone al momento della spedizione d'Egitto (1798), eccetera. L'India e la Cina hanno un gran vantaggio: attendono da noi benessere materiale e tecnologia. Vogliono venderci i loro prodotti, senza conquistarci né convertirci. Osserviamoli a testa fredda, senza sognare. Diffido di chi dice: il pensiero cinese non ha nulla a che vedere con le categorie occidentali, e così via. Ciò vorrebbe dire: compriamo dai cinesi e lasciamoli trattare gli operai, i dissidenti e l'ambiente come vogliono».
Le università asiatiche sfornano oggi più ingegneri e scienziati di quelle europee. La razionalità sta slittando verso Levante?
«La ragione non si limita al metodo sperimentale e ancor meno al calcolo tecnico. Complimentiamoci con l'Oriente per i loro progressi, ma non dimentichiamo che la ragione tecnica può anche mettersi al servizio di assurdità criminali: gli uomini dell'11 settembre sapevano pilotare un aereo e molti fondamentalisti sono esperti d'informatica e di telecomunicazioni. L'Europa non ha inaugurato il suo decollo intellettuale con la scienza e la tecnica, ma, fin dall'XI secolo, co l diritto e la teologia. Essa ha innanzitutto applicato la ragione alla ricerca di buone soluzioni per i rapporti fra gli uomini e degli uomini con Dio».
L'islam è spesso presentato come un unico blocco. Eppure, la frattura fra modernismo e tradizionalismo sembra accentuarsi. Siamo alla vigilia di grandi svolte?
«Il mondo che un po' frettolosamente viene chiamato islamico è unificato dalla religione. Per tutto il resto, invece, è mutevole. Le tensioni nel mondo islamico non sono semplici da comprendere: il sogno dei fondamentalisti è di accettare la tecnica occidentale rifiutando il resto. Usando un simbolo, la giovane donna in chador piegata su un microscopio elettronico. Essi riducono il "resto" a cose che dovrebbero imbarazzare anche l'Europa, come la pornografia o il suicidio demografico, ma non ad aspetti come lo spirito critico, il metodo storico, un diritto che si reclama solo di un Dio che parla alla coscienza. Ogni "modernismo" che vuole evitare di andare fino in fondo mi sembra una menzogna e un sogno impossibile».
Professore, lei sostiene che il confronto con le altre culture è stato decisivo per l'Europa. In che senso?
«Tutte le civiltà hanno ricevuto dall'esterno. Ma l'originalità dell'Europa riguarda principalmente tre aspetti. Anzitutto, ciò che assorbiva, ad esempio la cultura greca, non è stato assimilato, ma integrato salvaguardando un certo carattere di estraneità. Così gli eruditi europei non hanno semplicemente fatto tradurre i testi greci, hanno appreso la lingua. In seguito, l'Europa ha dato prova di curiosità verso le altre civiltà; fin dal XIII secolo ha divorato racconti di viaggiatori in Paesi lontani. Infine, l'Europa si è chiesta ciò che gli altri pensavano di lei. Anzi, ciò che potevano insegnarle sulla sua stessa natura. Ha cercato di osservare attraverso altre lenti. E ciò molto prima di Montesquieu o dello stesso Colombo, fin dal XV secolo».
Ora la globalizzazione richiede all'Europa nuove integrazioni?
«La globalizzazione non esige né di trattenere ciò che si ha, né di gettarsi ingenuamente su quanto giunge da lontano. Occorre piuttosto interrogarsi su ciò che è bene o è male, che sia nostro o di un'altra cultura».
La globalizzazione viene associata al rischio di un'omogeneizzazione culturale. L'Europa saprà evitarla?
«Una certa uniformizzazione è innegabile. Ma occorre distinguere. Le boutiques degli aeroporti sono più o meno dappertutto le stesse. Al contrario, la cultura popolare non scompare più, o quanto meno vegeta nella formula del folklore. L'Europa non manca di risorse nel resistere a un'omogeneizzazione che avanza in gran parte a suo vantaggio, ma piuttosto per cessare di odiarsi e per voler vivere. L'omogeneizzazione non è una causa, è un effetto: si cerca di confondersi nella massa quando si ha voglia di scomparire».
L'epoca ellenistica avvicinò l'Asia al Mediterraneo. Oggi l'ascesa economica di Cina ed India accentua gli scambi fra Asia e Europa. Ci avviciniamo al vecchio sogno politico di Leibniz di un «matrimonio» ideale fra Oriente e Occidente?
«Tutto cominciò con Alessandro Magno, che spinse l'ellenismo fino all'Indo. I Romani dovettero confrontarsi coi Parti. Poi, la conquista araba s'interpose come un cuneo fra Mediterraneo ed Estremo Oriente e l'islam recuperò i circuiti commerciali Est-Ovest fino all'epoca di Vasco de Gama, che ristabilì il contatto circumnavigando l'Africa. Il sogno di Leibniz era legato all'infatuazione ingenua della sua epoca per la Cina, le sue porcellane, la sua saggezza. Questo sogno fu ancora quello di Napoleone al momento della spedizione d'Egitto (1798), eccetera. L'India e la Cina hanno un gran vantaggio: attendono da noi benessere materiale e tecnologia. Vogliono venderci i loro prodotti, senza conquistarci né convertirci. Osserviamoli a testa fredda, senza sognare. Diffido di chi dice: il pensiero cinese non ha nulla a che vedere con le categorie occidentali, e così via. Ciò vorrebbe dire: compriamo dai cinesi e lasciamoli trattare gli operai, i dissidenti e l'ambiente come vogliono».
Le università asiatiche sfornano oggi più ingegneri e scienziati di quelle europee. La razionalità sta slittando verso Levante?
«La ragione non si limita al metodo sperimentale e ancor meno al calcolo tecnico. Complimentiamoci con l'Oriente per i loro progressi, ma non dimentichiamo che la ragione tecnica può anche mettersi al servizio di assurdità criminali: gli uomini dell'11 settembre sapevano pilotare un aereo e molti fondamentalisti sono esperti d'informatica e di telecomunicazioni. L'Europa non ha inaugurato il suo decollo intellettuale con la scienza e la tecnica, ma, fin dall'XI secolo, co l diritto e la teologia. Essa ha innanzitutto applicato la ragione alla ricerca di buone soluzioni per i rapporti fra gli uomini e degli uomini con Dio».
L'islam è spesso presentato come un unico blocco. Eppure, la frattura fra modernismo e tradizionalismo sembra accentuarsi. Siamo alla vigilia di grandi svolte?
«Il mondo che un po' frettolosamente viene chiamato islamico è unificato dalla religione. Per tutto il resto, invece, è mutevole. Le tensioni nel mondo islamico non sono semplici da comprendere: il sogno dei fondamentalisti è di accettare la tecnica occidentale rifiutando il resto. Usando un simbolo, la giovane donna in chador piegata su un microscopio elettronico. Essi riducono il "resto" a cose che dovrebbero imbarazzare anche l'Europa, come la pornografia o il suicidio demografico, ma non ad aspetti come lo spirito critico, il metodo storico, un diritto che si reclama solo di un Dio che parla alla coscienza. Ogni "modernismo" che vuole evitare di andare fino in fondo mi sembra una menzogna e un sogno impossibile».
«Avvenire» del 2 marzo 2007
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