Perché se si parla di apostasia, fatwe o burqa le culture liberali, marxiste e anti-istituzionali chiudono gli occhi?
di Carlo Cardia
La laicità potrebbe svolgere verso i musulmani la stessa funzione di stimolo anche critico che ha svolto verso il cristianesimo: invece tace, invocando multiculturalismo
Di fronte alla questione islamica, e del multiculturalismo, l'Occidente avrebbe una grande occasione storica. Quella di mostrare il volto migliore della laicità, che sa distinguere, accogliere e tutelare il patrimonio di spiritualità e di umanesimo presente nell'islam (come in altre religioni), e sa respingere pratiche e fenomeni di arretratezza civile e culturale che anche nelle terre cristiane sono esistiti in passato. La laicità potrebbe svolgere verso l'islam quella stessa funzione di stimolo anche critico che ha svolto verso altre confessioni, e favorire una evoluzione che ne esalti la religiosità e ne emargini le scorie del passato, soprattutto per ciò che riguarda la libertà religiosa e i principi di eguaglianza tra uomo e donna.
Ciò sarebbe tanto più importante, in quanto sono spesso gli stessi soggetti dell'immigrazione musulmana che si aspettano di poter fruire dei diritti umani garantiti dalle Carte internazionali, di veder rispettata l'eguaglianza e la dignità della donna, che chiedono insomma all'Occidente di rimanere fedele alla propria identità laica e accogliente. Nella realtà queste aspettative sono a volte deluse e in più di una occasione l'Europa ha dimostrato di non saper svolgere questa funzione storica che porterebbe ad allargare i confini della laicità. Di fronte ai problemi posti dal multiculturalismo la cultura laica europea risponde con uno spaesamento che tradisce incertezza e insicurezza. Insicurezza dei propri valori, della loro validità e tendenziale universalità. Anche quell'orgoglio che ha dato forza allo Stato laico, che ha prodotto diritto e storia, vacilla davanti a chi nega la laicità e le sue idealità più intime.
Ciò che colpisce è il divario tra le reazioni che si hanno per modeste divergenze con le Chiese tradizionali e le reazioni che accompagnano le più clamorose lesioni della laicità per motivi di multiculturalismo. Le prime riflettono l'antica suscettibilità, le altre sono fatte di stupore e di silenzi . Se una religione in Italia lucra ancora oggi qualche privilegio, si reagisce con veemenza perché la laicità dello Stato è in pericolo. Ma se un imam lancia una fatwa di morte contro letterati, giornalisti o registi, per offese all'islam, si tratta di un episodio che quasi non riguarda lo Stato laico, non chiama in causa l'oscurantismo confessionale. Se la fatwa viene eseguita, l'omicidio è di competenza della cronaca nera. Quando in un Paese europeo si discute su temi etici, le prese di posizione delle Chiese sono accolte con fastidio, come se avanzasse un nuovo temporalismo, e le religioni non potessero esprimersi su problemi di interesse collettivo. Se, però, in Europa o ai suoi confini, musulmani che cambiano religione sono minacciati, o direttamente messi a morte, si considera il fatto come il frutto di semplice arretratezza, anziché un salto indietro nella storia.
Uno strabismo particolare colpisce la cultura laica quando è in gioco la questione femminile. Mentre gli ordinamenti europei adottano raffinati strumenti, giuridici e sociali, per rendere effettiva la parità tra uomini e donne, la normativa islamica, e le pratiche conseguenti, che discriminano le donne o le umiliano, non suscitano ribellione, né ripulsa etica. Un tempo la cultura laica reagiva con veemenza, definendole oscurantiste e censorie, alle richieste di non eccedere nella liberalizzazione dei costumi sessuali, e nella licenziosità con cui veniva presentata la figura femminile. Oggi tace, e quasi si nasconde, se alcuni islamici chiudono le donne nel burqa, impedendone l'identificazione e umiliandone la dignità. Se il mondo musulmano reagisce con la violenza alle satire sull'islam, i governi europei fanno di tutto per placare i sentimenti feriti. Ma se nei Paesi musulmani semplici fedeli, religiosi, o interi gruppi sociali, vengono uccisi o sterminati, in Europa si tace.
A questo divario di reazioni si accompagna una forte carenza di analisi dell'islam, dell e sue arretratezze, del suo contrasto con la laicità. Il cattolicesimo, e il cristianesimo, sono stati per due secoli letteralmente vivisezionati per sradicare tutto ciò che sapesse di temporalismo, di anti-modernità, per spezzare la loro alleanza con il potere politico. Sull'islam, invece, tace la cultura liberale, tace la cultura marxista, e quella anti-istituzionale. Sembra quasi che la critica storicistica che vede nella religione l'instrumentum regni, lo strumento delle classi dominanti per perpetuare il loro potere, non abbia più nulla da dire di fronte ad altre religioni legate a regimi dispotici, nei quali povertà e arretratezza sociale si accompagnano alle ricchezze spropositate di chi è al potere. Insomma, quella cultura che è valsa a criticare, rinnovare, cambiare le nostre società, e ha svolto un ruolo internazionale di denuncia e di stimolo contro i totalitarismi, sceglie il silenzio di fronte all'arroccarsi di dispotismi più o meno teocratici.
Se si guarda, poi, alla letteratura specializzata, si scorge l'affiorare di un fenomeno che tende a stemperare la questione dell'islam in un indistinto dibattito sul multiculturalismo. Prendendo a spunto un dibattito che ha un altro oggetto - ovvero, le comunità e le minoranze nazionali che esistono all'interno di uno Stato, come in Alto Adige in Italia, nei Paesi Baschi in Spagna, in Irlanda, o nel Canada diviso tra francofoni e anglofoni - si tende quasi a giustificare una possibile scissione dei nostri ordinamenti, fino ad inserire pezzi della legge islamica nelle leggi dello Stato laico.
L'arrendevolezza non è senza conseguenze, perché incentiva e favorisce una tendenza a «negoziare (per i musulmani), uno statuto derogatorio di cittadinanza», e finisce col promuovere per gli islamici un modello che è, «seppure a formula rovesciata, quello di dhimmi». Con la differenza, però, che la condizione di dimmitudine in Europa sarebbe assai più vantaggiosa per i musulmani, i quali, « grazie alla piena libertà religiosa garantita in Occidente, non devono sottostare alle limitazioni che i dhimmi subiscono nel mondo islamico». Questa destrutturazione della laicità dello Stato potrebbe far realizzare l'impensabile, cioè che «si conceda a una minoranza quella tutela civile della propria identità e quel riconoscimento culturale che il laicismo figlio dell'illuminismo francese nega fin qui alla maggioranza cristiana».
Se questo indirizzo dovesse confermarsi assisteremmo a un declino della laicità dello Stato, e della cultura laica, che coinvolgerebbe l'insieme della società civile e dei rapporti interpersonali. Si stempererebbe una intera tradizione che ha fatto della libera volontà individuale il cardine dei rapporti con la religione e con le Chiese, e si affermerebbe una concezione religiosamente lottizzata della vita comunitaria, con il riemergere di poteri e gerarchie confessionali civilmente rilevanti, e culturalmente arretrati, ai quali ciascuno dovrebbe rispondere. Si avrebbe, poi, un ulteriore effetto a danno della cultura islamica più moderna, e di quell'islam democratico che in Europa cerca la strada per un'evoluzione in senso laico.
Ciò sarebbe tanto più importante, in quanto sono spesso gli stessi soggetti dell'immigrazione musulmana che si aspettano di poter fruire dei diritti umani garantiti dalle Carte internazionali, di veder rispettata l'eguaglianza e la dignità della donna, che chiedono insomma all'Occidente di rimanere fedele alla propria identità laica e accogliente. Nella realtà queste aspettative sono a volte deluse e in più di una occasione l'Europa ha dimostrato di non saper svolgere questa funzione storica che porterebbe ad allargare i confini della laicità. Di fronte ai problemi posti dal multiculturalismo la cultura laica europea risponde con uno spaesamento che tradisce incertezza e insicurezza. Insicurezza dei propri valori, della loro validità e tendenziale universalità. Anche quell'orgoglio che ha dato forza allo Stato laico, che ha prodotto diritto e storia, vacilla davanti a chi nega la laicità e le sue idealità più intime.
Ciò che colpisce è il divario tra le reazioni che si hanno per modeste divergenze con le Chiese tradizionali e le reazioni che accompagnano le più clamorose lesioni della laicità per motivi di multiculturalismo. Le prime riflettono l'antica suscettibilità, le altre sono fatte di stupore e di silenzi . Se una religione in Italia lucra ancora oggi qualche privilegio, si reagisce con veemenza perché la laicità dello Stato è in pericolo. Ma se un imam lancia una fatwa di morte contro letterati, giornalisti o registi, per offese all'islam, si tratta di un episodio che quasi non riguarda lo Stato laico, non chiama in causa l'oscurantismo confessionale. Se la fatwa viene eseguita, l'omicidio è di competenza della cronaca nera. Quando in un Paese europeo si discute su temi etici, le prese di posizione delle Chiese sono accolte con fastidio, come se avanzasse un nuovo temporalismo, e le religioni non potessero esprimersi su problemi di interesse collettivo. Se, però, in Europa o ai suoi confini, musulmani che cambiano religione sono minacciati, o direttamente messi a morte, si considera il fatto come il frutto di semplice arretratezza, anziché un salto indietro nella storia.
Uno strabismo particolare colpisce la cultura laica quando è in gioco la questione femminile. Mentre gli ordinamenti europei adottano raffinati strumenti, giuridici e sociali, per rendere effettiva la parità tra uomini e donne, la normativa islamica, e le pratiche conseguenti, che discriminano le donne o le umiliano, non suscitano ribellione, né ripulsa etica. Un tempo la cultura laica reagiva con veemenza, definendole oscurantiste e censorie, alle richieste di non eccedere nella liberalizzazione dei costumi sessuali, e nella licenziosità con cui veniva presentata la figura femminile. Oggi tace, e quasi si nasconde, se alcuni islamici chiudono le donne nel burqa, impedendone l'identificazione e umiliandone la dignità. Se il mondo musulmano reagisce con la violenza alle satire sull'islam, i governi europei fanno di tutto per placare i sentimenti feriti. Ma se nei Paesi musulmani semplici fedeli, religiosi, o interi gruppi sociali, vengono uccisi o sterminati, in Europa si tace.
A questo divario di reazioni si accompagna una forte carenza di analisi dell'islam, dell e sue arretratezze, del suo contrasto con la laicità. Il cattolicesimo, e il cristianesimo, sono stati per due secoli letteralmente vivisezionati per sradicare tutto ciò che sapesse di temporalismo, di anti-modernità, per spezzare la loro alleanza con il potere politico. Sull'islam, invece, tace la cultura liberale, tace la cultura marxista, e quella anti-istituzionale. Sembra quasi che la critica storicistica che vede nella religione l'instrumentum regni, lo strumento delle classi dominanti per perpetuare il loro potere, non abbia più nulla da dire di fronte ad altre religioni legate a regimi dispotici, nei quali povertà e arretratezza sociale si accompagnano alle ricchezze spropositate di chi è al potere. Insomma, quella cultura che è valsa a criticare, rinnovare, cambiare le nostre società, e ha svolto un ruolo internazionale di denuncia e di stimolo contro i totalitarismi, sceglie il silenzio di fronte all'arroccarsi di dispotismi più o meno teocratici.
Se si guarda, poi, alla letteratura specializzata, si scorge l'affiorare di un fenomeno che tende a stemperare la questione dell'islam in un indistinto dibattito sul multiculturalismo. Prendendo a spunto un dibattito che ha un altro oggetto - ovvero, le comunità e le minoranze nazionali che esistono all'interno di uno Stato, come in Alto Adige in Italia, nei Paesi Baschi in Spagna, in Irlanda, o nel Canada diviso tra francofoni e anglofoni - si tende quasi a giustificare una possibile scissione dei nostri ordinamenti, fino ad inserire pezzi della legge islamica nelle leggi dello Stato laico.
L'arrendevolezza non è senza conseguenze, perché incentiva e favorisce una tendenza a «negoziare (per i musulmani), uno statuto derogatorio di cittadinanza», e finisce col promuovere per gli islamici un modello che è, «seppure a formula rovesciata, quello di dhimmi». Con la differenza, però, che la condizione di dimmitudine in Europa sarebbe assai più vantaggiosa per i musulmani, i quali, « grazie alla piena libertà religiosa garantita in Occidente, non devono sottostare alle limitazioni che i dhimmi subiscono nel mondo islamico». Questa destrutturazione della laicità dello Stato potrebbe far realizzare l'impensabile, cioè che «si conceda a una minoranza quella tutela civile della propria identità e quel riconoscimento culturale che il laicismo figlio dell'illuminismo francese nega fin qui alla maggioranza cristiana».
Se questo indirizzo dovesse confermarsi assisteremmo a un declino della laicità dello Stato, e della cultura laica, che coinvolgerebbe l'insieme della società civile e dei rapporti interpersonali. Si stempererebbe una intera tradizione che ha fatto della libera volontà individuale il cardine dei rapporti con la religione e con le Chiese, e si affermerebbe una concezione religiosamente lottizzata della vita comunitaria, con il riemergere di poteri e gerarchie confessionali civilmente rilevanti, e culturalmente arretrati, ai quali ciascuno dovrebbe rispondere. Si avrebbe, poi, un ulteriore effetto a danno della cultura islamica più moderna, e di quell'islam democratico che in Europa cerca la strada per un'evoluzione in senso laico.
«Avvenire» del 1 3marzo 2007
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