«Kim», il capolavoro anglo-indiano ispiratore anche di Joyce e Brecht, esce in una nuova edizione
Di Claudio Magris
Mito della tecnica e richiamo della giungla anticipano le angosce dell’era digitale
Paradossalmente Kipling è molto più moderno - ossia, anche se forse inconsapevolmente, all’altezza del demone della modernità - là dove sembra arcaico, un narratore epico radicato in una totalità che non esiste più. Ma la sua voce arriva appunto da una totalità infranta, da un coro che va sgangherandosi in bruschi e rotti singulti, ognuno ormai per conto suo eppure memore di quell’unità, come i giovani lupi del Libro della giungla che, dopo la morte di Akela nella vittoria contro i cani rossi - vittoria che, come quasi sempre in Kipling, è l’inizio della fine e segna la dissoluzione del branco e l’addio di Mowgli - prendono ognuno sentieri diversi, seguono tracce solitarie. Nei Figli dello Zodiaco - un capolavoro che dice tutto sulla vita, l’amore, la felicità, la sconfitta - il Toro mormora: «Ricordati, fratello, una volta eravamo dèi». Se l’epos è un mondo non ancora abbandonato dagli dèi, nel mondo di Kipling ci si può solo ricordare di essere stati dèi - o commettere il peccato di dimenticarsene - ed è questa condizione spodestata, frammentaria, postuma che permette a tanti racconti - in cui pure spesso rullano i tamburi e, come dice Mahbub Ali in Kim, si genera un uomo con la stessa indifferenza con cui se ne uccide un altro - di esprimere la disgregazione, l’angoscia, la frammentarietà, la polvere della vita. Kim è, in certo modo, la sistemazione di diversi fregacci e macchie in un affresco più composto. Il romanzo si articola in due vicende, che corrispondono alle due anime di Kim, quella inglese e quella indiana. Kim, monello inglese che vive da vagabondo indiano - e di vari espedienti - per le strade dell’India, incontra un lama tibetano, Teshoo, che cerca un fiume miracoloso, il Fiume della Freccia, per affrancarsi, secondo la religione buddhista, dalla Ruota delle Cose, dal ciclo delle rinascite e dall’ingannevole e dolorosa sete di vivere, da ogni desiderio. Kim è un libro felice; forse troppo, oppure ironicamente felice. Tutto quadra e le contraddizioni si smussano. Il lama è un candido mistico rivolto a una verità che trascende il mondo, ma, pur con la sua ciotola che senza Kim resterebbe vuota, tramite il suo ricco convento provvede a pagare gli studi di Kim. Quest’ultimo, in alcuni momenti memorabili del romanzo, vive turbato la sua scissione, il mistero della sua e di ogni identità: «Io sono Kim. Io sono Kim. Chi è Kim?» Ma il dramma si scioglie subito e forse non sussiste, perché ogni duplicità esistenziale si risolve nella felicità della notte indiana, nella gioia di vagabondare col suo lama, nel piacere preso agli intrighi, alle leggi, anche al rischio del Grande Gioco. In Kim si realizza armoniosamente quell’incontro fra Oriente e Occidente che Kipling, in una frase famosa, aveva definito impossibile - anche se, ricorda Lidia Conetti, a quelle parole, tante volte citate, seguono altre che invece nessuno cita mai ossia che quando due uomini si danno la mano non esistono più né Est né Ovest, perché non importa da dove quegli uomini provengono. Tuttavia, quando un indiano e un inglese cercano, nei racconti di Kipling, di darsi la mano, il risultato - specie se sono di sesso diverso e se si tratta di un incontro d’amore - conduce spesso alla tragedia, vissuta e narrata con umanissima partecipazione, come avviene in Senza beneficio di clero o in Oltre la linea. L’impero, in Kim, non è né inglese né indiano, ma angloindiano nel senso più forte della parola. Lo incarna, meglio di ogni altro, il vecchio soldato indù che porta sempre con sé la sciabola del suo reggimento. Perfino la figura del Babu - l’indiano inglesizzato, spesso deriso da Kipling, con disprezzo reazionario, quale figura «democratica» e dunque per lui falsa dell’integrazione e dei diritti politici - è pienamente positiva: il babu Hurree, camaleontico agente segreto e raffinato erudito, è una colonna del Grande Gioco e quando dice «noi» intende ora gli indiani ora i britannici. La superbia razziale degli inglesi viene sprezzantemente dileggiata, ad esempio nella figura dell’arrogante tamburino che rimprovera Kim di «cianciare con i negri». Gli ufficiali che arrivano dall’Inghilterra, che sono stati allattati da donne bianche e hanno studiato l’India solo sui libri, capiscono poco; se l’impero si regge - e così bene, secondo Kipling - lo deve ai semplici soldati come Mulvaney, Ortheris e Learoyd, protagonisti di tanti racconti; ancor più agli indiani come Gunga Din, l’umile portatore d’acqua che muore in battaglia; anche ai cavalli e agli elefanti, e a tutta quella «bassa forza» che appare l’unica depositaria autentica dei valori dell’impero ed è pronta a dare una mano, con un’autorità dell’esperienza che non ha a che vedere con alcuna rivendicazione, a quei poveri ufficiali, funzionari e diplomatici - per tacere dei politici - che da soli non combinerebbero nulla. L’armonia generale comprende pure un pacifico e sorridente sincretismo religioso, che mette insieme, rispettandoli e senza prenderli troppo sul serio, dèi e culti di tutte le religioni, con una punta di irritazione per l’alterigia cristiano-protestante che liquida come pagani due terzi degli abitanti del mondo e con la simpatia dell’irlandese per il cattolicesimo, che appare a Kipling vicino al suo sentimento fraterno-epico-picaresco di accettazione corale della vita e delle sue insensatezze. Pure gli dèi d’Oriente e di Occidente convivono promiscuamente nell’indulgente bazar di Kim. Altrove, invece, si contrappongono in un fato inconciliabile, sebbene tutti coinvolti nell’universale consunzione delle cose. In un capolavoro come I costruttori di ponti l’impero è la modernità, la tecnica che invade e aggredisce la giungla, l’ingegneria che sfida la piena del Gange e gli antichissimi dèi: dèi-animali il cui tempo è immensamente più lungo della breve storia umana (e tanto più di quella imperiale), ma è anch’esso limitato e dunque è un breve battito di ciglia rispetto all’eternità. Questo tempo sgretola gli imperi e risucchia indietro gli dèi, sino a farli ritornare al quasi-nulla delle origini, al grumo di fango e di muco da cui sorgono la vita e le sue immagini. Creatore talora corrivo di facili miti, Kipling ha una grande potenza mitica, una profonda intuizione del carattere mitico della tecnica e del legame fra l’arcaico e il moderno. Come scriveva Cecchi nel suo famoso saggio del 1910, egli coglie l’aspetto terribile e vitale della vita contemporanea; averla colta nelle brulicanti ed eterogenee metropoli asiatiche gli ha permesso di afferrare il corto-circuito fra l’arcaicità e la tecnica, il rapporto fra gli dèi e le macchine («Un cui tocco può alterare tutto quanto esiste», dice una ballata), fra le costruzioni d’acciaio e i templi in rovina nella giungla. La vitalità tecnologica e metropolitana affascina e incute angoscia; Kipling ha saputo esprimere questa seduzione e quest’orrore. La macchina, la tecnica diventano in lui vive, diventano linguaggio; egli sa far parlare un motore come un cobra antichissimo che custodisce un tesoro sepolto. Il bardo imperiale, in ritardo sui tempi e sordo a tanti aspetti del progresso, diviene così uno scrittore ultramoderno, la cui lingua - una delle più varie, complesse e complete della letteratura inglese, secondo Burgess e Eliot - diviene la lingua stessa della modernità tecnologica. Senza questa lingua kiplinghiana, osserva Wilson, non esisterebbe l’Ulysses di Joyce. Non a caso Brecht ha imparato anche da Kipling uno stile che è montaggio e smontaggio della realtà e dell’uomo stesso. Tutto ciò ha implicazioni angosciose e apre inquietanti misteri sulla vita e sull’uomo; la sensibilità di Kipling per l’irrazionale, il paranormale, l’inspiegabile è connessa alla duplice fascinazione del misticismo e della tecnica, spesso inscindibili come nel racconto Senza fili, in cui il tema - presente anche altrove - delle vite anteriori s’intreccia alla telegrafia. La Ruota dalla quale il lama di Kim vuol liberarsi, muove la tecnica e ne è mossa; gli uomini, miseri e gloriosi, vengono macinati fra i suoi raggi senza lamentarsi: giusta è la Ruota, dice il lama. Se quest’ultimo vive tutto ciò con serenità, Kipling ne è turbato e cerca nella tecnica, nel lavoro, un rimedio a quell’angoscia che lo stesso lavoro, la febbrile trasformazione tecnologica del mondo gli incute. In un’inquietante poesia, Inno alla pena fisica, Kipling ha espresso la terribile incapacità di persuasione, l’impossibilità di vivere che caratterizza la modernità: la fatica che consuma notte e giorno gli uomini li opprime e li incalza senza sosta, sicché essi invocano una tregua, ma se cessa questa furia di fare e se si placa il morso della pena, si ridesta nell’animo l’angoscia del vivere, l’orrore della vita nuda, inconcepibile e insostenibile. È la droga che permette di vivere, qualsiasi droga: l’oppio nella Porta dei cento affanni (testo mirabile, in cui la lenta dissoluzione dell’io diviene il ritmo del racconto), il furore di vendetta in Dray wara vow dee o il frenetico lavoro dei funzionari, degli ingegneri, dei soldati in tante novelle. La pena fisica impedisce di godere il mondo e altrettanto lo impedisce il suo placarsi. Kim è invece un libro in cui il mondo c’è ancora - oggettivo, vero, tangibile, seducente - e c’è ancora, almeno per il protagonista, la possibilità di amarlo e goderlo con abbandono, come nella grande pagina in cui Kim, riemergendo dallo sfinimento, riscopre la sua vastità amica, percepisce i suoi colori, le sue forme e sente che il suo essere sta riagganciandosi alla realtà esterna. È una felicità - un particolare stato di felicità, scrive Alberto Manguel - di Kim, non di Kipling; il primo, a differenza del secondo, non è stato strappato all’infanzia indiana e non è stato costretto a crescere.
Tra i romanzi più celebri di Kipling: «Il libro della giungla» (1894), «Il secondo libro della giungla» (1895), «Kim» (1901). Tra le sue poesie: «Gunga Din» (1892) e «Se» (1895)
«Corriere della sera» dell’11 marzo 2007
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