Parla lo scrittore israeliano, ospite a Pordenone: «Il tema del XXI secolo sarà lo scontro tra tolleranza e questa piaga trasversale»
di Daniela Pizzagalli
«Il disimpegno è una reazione alla follia ideologica, in un certo senso ne è un sottoprodotto. Ma chi si mura nel privato diventa un fanatico di sé»
Da sempre la grande triade di scrittori israeliani, David Grossman, Abraham B. Yehoshua e Amos Oz, è politicamente impegnata a favore degli accordi di pace con i palestinesi, eppure il nuovo romanzo di Amos Oz, Non dire notte (Feltrinelli, pagine 202, euro 15,00) sembra alludere al velleitarismo di certe iniziative pubbliche: c'è un centro di recupero per giovani drogati da costruire, ma il tentativo si sfalda tra ostacoli burocratici, riunioni inutili, malcontento della gente, rischiando anche di mandare in crisi la vita di coppia di Noa, la responsabile del progetto. Amos Oz è protagonista della XIII edizione della manifestazione «Dedica» che si svolge a Pordenone da oggi al 17 marzo.
Come concilia i suoi interventi alle manifestazioni per la pace con il predominio della sfera privata nei suoi romanzi?
«Tengo sempre separati gli ambiti della mia attività. Quando c'è da mandare al diavolo il governo, lo faccio direttamente attraverso articoli o pamphlet, non certo con allusioni indirette nei romanzi. Quanto alla mia attività letteraria, consiste nel raccontare storie, che per me è un'esigenza vitale, come bere, e non ha niente a che vedere con la situazione politica, nemmeno con la nazione in cui scrivo: queste storie potrebbero svolgersi ovunque. Ad esempio, in Non dire notte il progetto del centro di recupero per drogati è la piattaforma da cui partire per analizzare il rapporto sentimentale di Noa, che si sente un po' tarpata dal suo compagno Theo, sessantenne e più anziano di lei di quindici anni, ed è affascinata dal progetto come strumento di autorealizzazione, mentre Theo è affascinato da lei e s'ingelosisce, vorrebbe guidare lui il progetto. Alla fine, le difficoltà potranno essere superate attraverso il ricorso al compromesso, come in tutte le cose della vita».
Infatti il tema del compromesso ricorre anche nel suo pamphlet del 2004, «Contro il fanatismo».
«Quella contro il fanatismo sarà la grande sfida del XXI secolo. Il fanatismo è una piaga trasver sale, c'è in tutte le religioni e le culture, quindi il grande tema epocale non sarà, come molti pensano, lo scontro tra civiltà, ma tra tolleranza e fanatismo. L'unica soluzione possibile è nel compromesso. Non so perché gli idealisti lo considerano disonesto: il compromesso è vita, perché cerca la possibilità di continuare a vivere. Invece il fanatismo è morte. Sono l'apostolo del compromesso, sia nella politica che nella vita. In effetti, essendo sposato con la stessa donna da 47 anni, posso dirmi un vero esperto in materia».
In contrasto al fanatismo, oggi sembra serpeggiare la piaga dell'indifferenza. In Israele, una nuova generazione di scrittori, come Etgar Keret o Alona Kimhi ripiegano sul privato.
«L'indifferenza è una reazione al fanatismo, quindi in un certo senso ne è un sottoprodotto, una fuga dalle responsabilità. Chi si mura nell'indifferenza finisce per essere interessato soltanto a se stesso, diventa un fanatico di sé».
Nel suo romanzo, invece, c'è un vivacissimo microcosmo: l'immaginaria cittadina di Tel Kedar, un mosaico di tipi umani che circonda la coppia Noa-Theo con la disinvolta invadenza della vita di provincia.
«Amo la vita di provincia, questo bisogno di rispecchiarsi negli altri, questo girare attorno sempre alle stesse persone. C'è qualcosa di epico nel raccontare una piccola popolazione, che come un coro greco fa da contrappunto alle storie personali. In fondo anche nelle metropoli dispersive si finisce per vivere in un ambiente ristretto, fatto delle stesse facce: una sfida per lo scrittore. È questo che mi piace del mio mestiere».
Con una particolare tenerezza, si direbbe, per il protagonista Theo, che sta entrando nella terza età.
«Sì, questo è un romanzo che ho dedicato al tardo pomeriggio della vita, alle sue fantasie ed ossessioni. L'ho scritto con molta empatia, con senso di pietas. Del resto affronto sempre i miei personaggi con amore, non riesco a descrivere figure totalmente sgradevoli: in ognuno, anche se ci sono lati oscuri, vedo guizzi di umanità».
Che parere si è fatto sulla polemica scoppiata attorno al libro di Toaff, «Pasque di sangue»?
«Non me la sento di esprimere un'opinione in merito, perché non ho letto il libro. Posso solo dire che in Israele c'è stata una risonanza molto negativa, una vera bagarre, ma non per questo mi sono messo a leggere il libro».
«Avvenire» del 3marzo 2007
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