Torna Giorgio Colli su Platone
di Mario Andrea Rigoni
Era ancora studente del secondo anno di Giurisprudenza all’Università di Torino e aveva appena vent’anni Giorgio Colli quando nel 1937 stese un saggio intitolato Lo sviluppo del pensiero politico di Platone, che sarebbe stato pubblicato due anni dopo nella «Nuova rivista storica». Esso era parte di un progetto più ampio che, insieme con altri due saggi, intitolati rispettivamente Filosofi sovrumani e Il problema della cronologia platonica, si tradurrà nella sua tesi di laurea in Filosofia del diritto, Politicità ellenica e Platone, discussa nel 1939. Particolare importante: tra il primo e il secondo, che estende l’indagine al rapporto di Platone coi presocratici, Colli legge La nascita della tragedia di Nietzsche: l’orizzonte di interessi dello studioso della sapienza greca e del futuro editore di Nietzsche appare in tal modo già chiaramente delineato. Adesso il figlio Enrico pubblica per Adelphi il primo di quei tre scritti, mai più ristampato dal 1939, sotto un titolo sintetico, Platone politico (pagine 166, 12), che ha il pregio di segnalare subito l’orientamento interpretativo del giovanissimo ricercatore, di cui non si può non ammirare la precoce maturità di spirito e l’eccezionale padronanza dell’opera platonica, come pure della letteratura critica relativa. Esso non denota semplicemente che la materia trattata è l’aspetto politico della filosofia platonica, ma indica che la politica costituisce alla fine l’essenza stessa di tale filosofia, intesa come conoscenza che si raggiunge nella comunità e per la comunità, poiché il più profondo motivo del pensiero platonico consiste «nell’aspirazione ad agire sugli uomini e per gli uomini», del resto in conformità con la tendenza generale dello spirito greco: «Se non avesse avuto questo impulso politico Platone si sarebbe chiuso in una solitaria contemplazione della sua verità mistica e non avrebbe scritto, perché i Greci non scrivevano per la posterità, ma solo per agire sui contemporanei». Tenendo presente questo aspetto si comprende meglio perché Colli, sulle tracce di Wilamowitz, dia tanta importanza alla biografia di Platone in tutti i suoi aspetti (dalle origini familiari, intellettuali e letterarie al viaggio in Egitto, dalla conoscenza dei circoli pitagorici ai noti e drammatici soggiorni nella Sicilia dei tiranni siracusani), visti in costante relazione col pensiero del filosofo e con le sue trasformazioni. L’elemento, così singolare e così «moderno», che colpisce chiunque abbia una conoscenza anche approssimativa dell’opera di Platone è la continua oscillazione delle sue posizioni, capace di giungere fino all’aperta contraddittorietà. Come spiegare un tale sorprendente fenomeno? Colli ritiene che «un’unica soluzione sembra presentarsi al critico; interpretare Platone storicamente, ossia spiegare queste sue apparenti contraddizioni come successive fasi del suo sviluppo spirituale». Ancora una volta la biografia, e in particolare la cronologia dei Dialoghi, diventa centrale. Con rattenuta ma evidente passione Colli presenta tale sviluppo come un titanico sforzo di trovare un adeguamento, via via diverso, del reale all’ideale e dell’ideale al reale, del sensibile al razionale e del razionale al sensibile, delle leggi alla morale e della morale alle leggi. T utto ciò è difficilmente contestabile. Ma se le ambivalenze e le contraddizioni platoniche non fossero solo «apparenti»? Se esse rappresentassero, oltre e più che le fasi di uno svolgimento, la testimonianza dell’irresolubile duplicità del reale, del prospettivismo ineliminabile del mondo, al quale non può che corrispondere un incessante sperimentalismo speculativo? Se ciò che Platone col suo occhio linceo vide, e cercò di esorcizzare, fosse proprio l’abisso selvaggio che tanto tempo dopo avrebbe svelato Nietzsche, l’anti-Platone già celato nelle vesti del sofista? L’inesausta serie di tentativi operata da Platone per realizzare la sua concezione della giustizia o, per lo meno, della saggezza sulla terra andò incontro, come si sa, a un seguito di clamorosi insuccessi. Non solo in Sicilia. Anche ad Atene la sua opera fu un fiasco e persino nell’Accademia non trovò veri seguaci. L’uomo che voleva indicare all’umanità la via della giustizia e della felicità fu uno sconfitto. Tuttavia, proprio in questo eroico fallimento e nel rifiuto di rassegnarvisi attraverso un’analitica tanto folgorante quanto profetica risiedono per noi la sua lezione, il suo fascino e la sua attualità.
«Corriere della sera» del 2 marzo 2007
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