L’entusiasmo di Ardengo Soffici, il pittore toscano che frequentò gli impressionisti. E che tornò in Italia per far conoscere l’artista francese
di Francesca Bonazzoli
Opaca. Si poteva definire così l’arte italiana alla fine dell’Ottocento. In particolare, in Toscana c’erano stati i Macchiaioli ma, nonostante certa retorica di oggi che pretende di equipararli agli impressionisti, la loro autorevolezza in Europa era ben poca cosa. Gli artisti del tempo lo sapevano bene e infatti, appena potevano, scappavano da un mondo di dinosauri accademici per raggiungere Parigi. Fra i toscani che partirono, il più famoso è Modigliani, ma l’ebreo livornese si giocò la sua breve partita fra le droghe e l’alcol di Montparnasse, senza mai più fare ritorno. Chi invece tornò fu il pittore Ardengo Soffici e come missione si diede quella di svecchiare il gusto italiano attraverso la sua magniloquente penna di critico. Certo la prosa di Soffici, che divenne e rimase fascista fino alla morte nel 1964, sembra quella dei notiziari del regime e oggi non si può leggerla senza sentirne un’eco parodistica, ma resta il fatto che all’epoca l’artista fu uno dei pochi critici italiani ad apprezzare i francesi e in particolare Cézanne. «La pittura di Cézanne è lo sbocciare di un’anima contemporanea ardente di poesia e di panteismo orgiastico simile a un ardente fior d’anarchia, riunisce in sé le qualità di tutti gli altri ((impressionisti, ndr) e irradia il loro lavoro con una prodigalità solare», scriveva nel 1904 con tutta la foga retorica dell’entusiasmo nelle sue «Condisérations» sul Salon d’Automne. All’epoca Soffici viveva ancora a Parigi. Era partito da Firenze nel 1900, a ventun anni, con l’idea di visitare l’Esposizione Universale, ma poi decise di restare, folgorato dall’energia che gli sembrava spazzare via d’un colpo l’aria stagnante sul cielo di Toscana. Incontrò subito Picasso e poi tutti gli altri, Braque, Derain, Matisse, Vlaminck, Apollinaire, Max Jacob, André Salmon, il doganiere Rousseau, Maurice Denise, Rodin. Ma fu la pittura di Paul Cézanne ad appassionarlo: «Volendo assegnare paternità ideale a Paul Cézanne, le grandi immagini di Michelangelo e di Eschilo, apparirebbero le prime alla fantasia. Al pari del primo egli ha compreso la forza mistica che scoppia dalle cose mute, dai tronchi e dalle rocce; al pari del secondo ha sentito la potenza selvaggia che erompe dal cuore ingenuo del popolo, e queste due energie ha racchiuso nei suoi paesi e nelle sue figure. Così come la loro, la sua opera è un rozzo terreno, spoglio, pietroso, atroce, scorticato, dal quale sbocciano piante, fiori ed erbe, mestamente, castamente, con semplice spontaneità naturale», scriveva nel 1908, al suo rientro in Italia. Una passione che si esprimeva con immagini da invasato: «Poiché, allo spirito affamato di assoluto, la natura appare simile a un colossale geroglifico che soltanto l’anima estasiata può decifrare, così Paul Cézanne ha voluto assaltarla e violarla frugandone il corpo fino al sangue e alle ossa. I suoi paesi e le sue figure attestano questa penetrazione alacre». Soffici rivedeva in Cézanne il mondo «maschio» di Giotto, Masaccio, Michelangelo, la loro stessa passione per la forma. Ma più delle parole, il vero omaggio che riuscì a dedicargli fu la mostra organizzata a Firenze assieme a Prezzolini, rastrellando opere dai mercanti che conosceva e che si chiamavano Vollard, Rosenberg, Durand-Ruel.
«Corriere della sera» del 1 marzo 2007
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