Incontro con il premio Nobel per la pace fondatore del microcredito, intervenuto ieri all'Università Roma Tre
di Paola Springhetti
«I poveri sono come i bonsai, non hanno il terreno, lo spazio per crescere; ma la povertà si può debellare. Ed è un compito del libero mercato»
Riusciremo a mettere la povertà in un museo, dove le future generazioni andranno a vedere una cosa che non esiste più, e inorridiranno a scoprirne la passata esistenza? Uno che ci crede, nel fatto che la povertà possa essere definitivamente sconfitta, è Muhammad Yunus, premio Nobel per la pace 2006, noto in tutto il mondo come fondatore della Grameen Bank e inventore del microcredito: uno strumento di lotta alla povertà che consiste nel fornire ai poveri prestiti piccoli, ma sufficienti per avviare piccole attività di lavoro autonomo e imprenditoriale. La sola Grameen Bank ha concesso 7 milioni di prestiti ad altrettanti poveri (il 97% dei quali donne), ma il modello è stato esportato in tutto il mondo, anche in Italia, dove già esiste ma avrebbe bisogno di un maggiore sviluppo.
Yunus ieri era a Roma per una lectio magistralis all'Università degli Studi Roma Tre, e ha appassionatamente ripetuto che la povertà si può sradicare, se lo si vuole, perché in fondo i poveri sono come i bonsai: non hanno il terreno, lo spazio per crescere. Se glielo dai, ci penseranno da soli, a cambiarsi la vita.
«Molti problemi del mondo, incluso quello della povertà», spiega Yunus, «persistono ancora oggi a causa di una interpretazione restrittiva del capitalismo: quella che parte dal presupposto che gli imprenditori sono esseri umani ad una dimensione, che hanno un unico obiettivo: massimizzare i profitti. Questa interpretazione esclude gli imprenditori da tutte le altre dimensioni della loro vita: politica, emotiva, sociale, spirituale, ambientale che sia. Il successo del libero mercato ci ha spinto a fare di tutto per trasformare noi stessi negli uomini unidimensionali definiti dalle teorie».
Se si prende coscienza di questo, si sentirà il bisogno di cambiare il carattere del capitalismo: «Dobbiamo imparare a risolvere all'interno della logica del libero mercato molti dei problemi sociali ed economici a tutt'oggi irrisolti. Dobbiamo cioè supporre che l'imprenditore invece che un u nico obiettivo (massimizzare i profitti), ne abbia due: il profitto, ma anche rendere migliore il mondo e la gente. Questo porta a un nuovo tipo di business: il social business».
Una specie di capitalismo non profit, se così si può dire, in cui «chi investe nel social business può rifarsi del capitale investito, ma non prenderà dividendi dall'azienda. Il profitto sarà reinvestito in essa perché possa ampliare e migliorare la qualità dei servizi». Qualcosa di molto simile alle nostre imprese sociali, parrebbe, ma capace di diventare modello generale: «Una volta che il social business sarà riconosciuto dalla legge, molte delle attuali aziende creeranno attività di questo tipo che andranno a sommarsi a quelle per cui sono nate. E molti attivisti del terzo settore saranno attratti da questa possibilità: invece di un terzo settore perennemente impegnato a raccogliere fondi per sostenere le proprie attività, avremo un mondo in grado di autosostenersi, e anzi di creare le risorse per espandersi».
All'interno del social business, comunque, si colloca anche un altro modello: quello delle aziende profit ma controllate dai poveri. Anche la Grameen Bank rientra in questa categoria. «Chi ha ricevuto un prestito», dice ancora Yunus, «compera un po' di azioni, e non può venderle a chi non abbia beneficiato dei prestiti. Nei Paesi in via di sviluppo, i donatori potrebbero facilmente creare questo tipo di social business: quando donano una somma per costruire un ponte, ad esempio, potrebbero creare una "azienda del ponte" posseduta dai poveri del luogo, e con i profitti si potrebbero altre infrastrutture. Perché il social business possa svilupparsi adeguatamente, poi, bisognerebbe creare un social stock market, agenzie di rating, una terminologia adeguata, corsi di formazione per manager, e anche pubblicazioni finanziarie specializzate».
Grameen ha già creato in Bangladesh due aziende di questo tipo: una fabbrica di yogurt, insieme alla Danone, per i bambini malnutriti, e una c atena di centri per la cura degli occhi.
Gli ambiti in cui il social business potrebbe essere attivo sono molto ampi: la salute per i poveri, i servizi finanziari, le tecnologie informatiche, l'educazione e istruzione sempre per i poveri, oltre che le energie rinnovabili…
Ci sarebbe un'obiezione possibile: non spetta al secondo settore, cioè al pubblico, la risposta ai bisogni fondamentali, come la salute? «In questo la maggior parte dei governi del Terzo mondo ha fallito. Il primo settore, cioè il privato, potrebbe fare di più. Ma il profitto personale su cui il primo settore si fonda ha una propria agenda, che entra in conflitto con l'agenda a favore dei poveri, delle donne, dell'ambiente». È per questo che è arrivato il momento di globalizzare quello che in Italia chiameremmo privato sociale.
Yunus ieri era a Roma per una lectio magistralis all'Università degli Studi Roma Tre, e ha appassionatamente ripetuto che la povertà si può sradicare, se lo si vuole, perché in fondo i poveri sono come i bonsai: non hanno il terreno, lo spazio per crescere. Se glielo dai, ci penseranno da soli, a cambiarsi la vita.
«Molti problemi del mondo, incluso quello della povertà», spiega Yunus, «persistono ancora oggi a causa di una interpretazione restrittiva del capitalismo: quella che parte dal presupposto che gli imprenditori sono esseri umani ad una dimensione, che hanno un unico obiettivo: massimizzare i profitti. Questa interpretazione esclude gli imprenditori da tutte le altre dimensioni della loro vita: politica, emotiva, sociale, spirituale, ambientale che sia. Il successo del libero mercato ci ha spinto a fare di tutto per trasformare noi stessi negli uomini unidimensionali definiti dalle teorie».
Se si prende coscienza di questo, si sentirà il bisogno di cambiare il carattere del capitalismo: «Dobbiamo imparare a risolvere all'interno della logica del libero mercato molti dei problemi sociali ed economici a tutt'oggi irrisolti. Dobbiamo cioè supporre che l'imprenditore invece che un u nico obiettivo (massimizzare i profitti), ne abbia due: il profitto, ma anche rendere migliore il mondo e la gente. Questo porta a un nuovo tipo di business: il social business».
Una specie di capitalismo non profit, se così si può dire, in cui «chi investe nel social business può rifarsi del capitale investito, ma non prenderà dividendi dall'azienda. Il profitto sarà reinvestito in essa perché possa ampliare e migliorare la qualità dei servizi». Qualcosa di molto simile alle nostre imprese sociali, parrebbe, ma capace di diventare modello generale: «Una volta che il social business sarà riconosciuto dalla legge, molte delle attuali aziende creeranno attività di questo tipo che andranno a sommarsi a quelle per cui sono nate. E molti attivisti del terzo settore saranno attratti da questa possibilità: invece di un terzo settore perennemente impegnato a raccogliere fondi per sostenere le proprie attività, avremo un mondo in grado di autosostenersi, e anzi di creare le risorse per espandersi».
All'interno del social business, comunque, si colloca anche un altro modello: quello delle aziende profit ma controllate dai poveri. Anche la Grameen Bank rientra in questa categoria. «Chi ha ricevuto un prestito», dice ancora Yunus, «compera un po' di azioni, e non può venderle a chi non abbia beneficiato dei prestiti. Nei Paesi in via di sviluppo, i donatori potrebbero facilmente creare questo tipo di social business: quando donano una somma per costruire un ponte, ad esempio, potrebbero creare una "azienda del ponte" posseduta dai poveri del luogo, e con i profitti si potrebbero altre infrastrutture. Perché il social business possa svilupparsi adeguatamente, poi, bisognerebbe creare un social stock market, agenzie di rating, una terminologia adeguata, corsi di formazione per manager, e anche pubblicazioni finanziarie specializzate».
Grameen ha già creato in Bangladesh due aziende di questo tipo: una fabbrica di yogurt, insieme alla Danone, per i bambini malnutriti, e una c atena di centri per la cura degli occhi.
Gli ambiti in cui il social business potrebbe essere attivo sono molto ampi: la salute per i poveri, i servizi finanziari, le tecnologie informatiche, l'educazione e istruzione sempre per i poveri, oltre che le energie rinnovabili…
Ci sarebbe un'obiezione possibile: non spetta al secondo settore, cioè al pubblico, la risposta ai bisogni fondamentali, come la salute? «In questo la maggior parte dei governi del Terzo mondo ha fallito. Il primo settore, cioè il privato, potrebbe fare di più. Ma il profitto personale su cui il primo settore si fonda ha una propria agenda, che entra in conflitto con l'agenda a favore dei poveri, delle donne, dell'ambiente». È per questo che è arrivato il momento di globalizzare quello che in Italia chiameremmo privato sociale.
«Avvenire» del 20 marzo 2007
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