Il libero confronto tra editoria e ricerca è venuto meno in nome del marketing
di Paolo Di Stefano
Potrebbe sembrare l’ennesima discussione lagnosa sul declino della critica letteraria, ma diciamo la verità, quello venuto fuori da un articolo di Gabriele Pedullà apparso su Alias il 20 gennaio scorso, e che prosegue ancora di sabato in sabato sempre sul supplemento del manifesto, è un dibattito che coinvolge i meccanismi e i valori della cultura contemporanea. Pedullà dice cose che sono sotto gli occhi di tutti, ma ha il pregio di dirle bene e di dirle tutte insieme: in sostanza osserva che il libero confronto tra editoria, critica e ricerca è venuto meno in nome del marketing; che c’è un generale consenso sugli imperativi del mercato; che tutto ciò fa il gioco di scrittori mediocri che non desiderano essere giudicati. Coordinando il forum del Corriere on line «Leggere e scrivere», mi accorgo da tempo di quanto il lettore nutra una tenace diffidenza per la critica: poco autorevole, appiattita alle classifiche e generalmente inaffidabile. Eppure non sempre è stato così: c’era un tempo in cui i Cecchi, i Pampaloni, i Citati, i Milano, i Gramigna, i Guglielmi, i Giuliani, i Baldacci, i Raboni venivano letti con ammirazione, condivisi e contestati con i loro gusti e i loro pregiudizi. C’erano fior di testate che se ne contendevano le firme perché contavano, facevano opinione, tendenza, discussione. Stimolavano la riflessione tra il pubblico e tra gli scrittori. Erano i cosiddetti critici militanti, cioè i critici che si occupavano in diretta della contemporaneità, preferibilmente su sedi non specialistiche: quei critici ai quali recentemente Giorgio Manacorda ha dedicato un’ispirata Apologia (pubblicata da Castelvecchi), forse un pò troppo ispirata, appunto, quando afferma che il critico militante «è un sogno inappagato dell’umanità», una specie di dio androgino che accoglie e respinge, laico e settario, padre e boia, eccetera eccetera. Più terra terra (si fa per dire), ci si accontenterebbe di personalità autorevoli, dotate di fiuto, gusto e talento interpretativo. Ce ne sono, oggi, in Italia? Ce ne sono, ce ne sono, ma non interessano a nessuno, o quasi, in un’epoca in cui più che la qualità vige il «ricatto» dei numeri: nell’editoria, nei giornali e di conseguenza nel pubblico. I nomi fatti da Filippo La Porta e da Franco Cordelli sono lì a dimostrarlo. E se ne potrebbero aggiungere altri. Raffaele Manica ha giustamente fatto dei distinguo: c’è il recensore, il critico letterario, il saggista («attività profondamente diverse che vanno dall’informazione fino all’elaborazione di sistemi e di stili di pensiero»). Ce ne sono, oggi in Italia, ce ne sono... Ma sono inascoltati, scrivono per lo più in sedi periferiche (ottime riviste come Lo straniero, l’immaginazione....), bypassati dal ben diverso impatto degli uffici stampa, delle librerie-megastore, della pubblicità. Tant’è vero che i Raboni, i Garboli, i Pampaloni, i Gramigna nessuno purtroppo sente il bisogno di sostituirli: scomparsi per sempre, come per un’evoluzione darwiniana a cui non si può porre rimedio. È inutile far finta di niente, con il rinnovamento (per certi versi salutare) delle pagine culturali, con il passaggio dalla critica-regina (spesso, è vero, noiosa e paludata) alla «notizia» e dalla recensione all’intervista, quelli che contano non sono più tanto i critici letterari quanto i giornalisti (non necessariamente culturali, ma anche sportivi, di cronaca, giudiziari, economici, politici: per le cose che contano - un processo, una seduta parlamentare - verrebbe mai richiesto un critico letterario?): da loro non si pretende un giudizio di valore o un’interpretazione a caldo, ma un resoconto «neutrale», un’intervista, un’anticipazione. Dagli specialisti della letteratura (tutti in -isti: i barbogi italianisti, gli anglisti, i francesisti eccetera) siamo passati ai prìncipi della comunicazione. Vorrà dire qualcosa?
«Corriere della sera» del 6 marzo 2007
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