L' analisi di Bazoli e Böckenförde
di Armando Torno
La modernità sembra avere in sé una spirale autodistruttiva
Il termine «capitalismo» non è antico. Lo si trova nei testi riformistici inglesi e francesi verso metà Ottocento e Karl Marx comincia a utilizzarlo nel suo epistolario; anzi, si direbbe che il padre del comunismo arricci a volte il naso dinanzi ad esso, tanto che nell'opera Per la critica dell'economia politica (1859) preferisce l'espressione «modo di produzione» capitalistico. Certo, l'idea è antica: un traduttore qualificò «capitalista» il ricco Cefalo nel primo libro della Repubblica di Platone, né sono mancati professori sovietici che spostarono di qualche secolo il termine per farlo partecipare alla storia del cristianesimo. Eppure, nonostante azzardi e licenze, è il momento di porsi domande sulla salute del capitalismo, il cui cuore pulsa soprattutto negli Stati Uniti, la più grande potenza attuale. Ma anche su quanto pensa di esso la religione cristiana, che conserva i principi fondanti dell' Occidente. Del resto, la crisi mondiale che ha scosso le economie negli ultimi anni «ha rimesso in moto il pensiero». L'espressione è di Michele Nicoletti e apre l'introduzione al libro, composto da due densi saggi, nati arricchendo meditazioni precedenti, firmati da Ernst-Wolfgang Böckenförde e Giovanni Bazoli, Chiesa e capitalismo (Morcelliana, pp. 70, € 8). Il filosofo del diritto tedesco ricorda che il capitalismo «non soffre solo di propri eccessi, della bramosia e dell' egoismo degli uomini che agiscono in esso», avverte una crisi che tocca anche la sua idea-guida «in quanto razionalità strumentale» e mostra disagio la stessa forza costruttiva del sistema. Per usare un'immagine di sintesi: i disastri economici attuali rivelano la presenza di una spirale autodistruttiva che la modernità sembra avere in sé. Giovanni Bazoli nelle sue pagine - si aprono con la caduta del muro di Berlino - osserva come il sogno del capitalismo dopo il crollo delle ideologie totalitarie non si sia avverato, giacché «l'apertura dei mercati ha favorito i Paesi ricchi» dilatando la forbice tra benessere e miseria. Quello che ci sta davanti è uno «scenario scandaloso», nel quale l'estrema indigenza tormenta buona parte dei popoli, mentre la «globalizzazione non ha saputo porre rimedio». Bazoli denuncia l'incapacità di promuovere una più equa ripartizione della ricchezza, l'esasperato utilitarismo e i suoi costi umani (tra i quali le «condizioni di instabilità, insicurezza e precarietà del lavoro»), l'alterazione dell'ambiente e la compromissione delle risorse. Ricorda che «è caduto il mito della simbiosi tra capitalismo e democrazia». Senza dimenticare una componente etica e religiosa dello «spirito» del capitalismo, delineata da Max Weber, che ha le sue ragioni nell'accettazione della lotta e competizione economica. Era la via cara ai calvinisti, che si batteva per dimostrare di meritare la grazia della salvezza. Due analisi scritte grazie a una conoscenza diretta e senza infingimenti. Che fare? Böckenförde ricorda Wojtyla, «il critico più acuto del capitalismo dopo Marx»: già nella sua prima enciclica Redemptor Hominis aveva ammonito che «un uomo non può diventare schiavo delle cose, schiavo dei sistemi economici, schiavo della produzione, schiavo dei suoi propri prodotti», indicando nei valori basati su natura e destinazione l'uscita da questo sistema formicolante di egoismo. Bazoli riprende anch'egli i documenti del magistero della Chiesa, partendo dalla Popolorum progressio di Paolo VI e giungendo a Benedetto XVI, per sottolineare che «il grande problema che le regole dell'economia devono risolvere» è quello di «contemperare la tutela della libertà con quella dell'uguaglianza». Ma si tratta anche di fissare «nuove regole». Accanto alle quali non si dimentichi che «la grande sfida da affrontare, in definitiva, è quella di superare la supposta neutralità dell' economia». Ci si accorge, esaminando problemi e denunce, che la Chiesa da oltre un secolo sta monitorando le mosse del capitalismo e indica, sollecita, a volte grida. Si può accettare o respingerne il magistero, ma è certo che senza ripensare i principi fondanti dell' Occidente ogni riforma sarebbe inutile.
«Corriere della Sera» del 1 marzo 2010
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