11 marzo 2010

Ecco perché è utile studiare ancora l’aoristo

Dire che allenano la mente non basta: greco e latino sono alla base degli aspetti più significativi della civiltà occidentale
di Cinzia Bearzot
Il mondo antico esprime e riporta ai valori originali della società democratica E noi italiani siamo rimasti unici: la Francia deve cercare all’estero chi insegni Cicerone
Lo studio delle lingue classiche è stato spesso contestato, ora perché ritenuto espressione di un modello formativo troppo e­litario e selettivo, ora perché consi­derato superato rispetto a discipli­ne più «moderne» e meglio rispon­denti agli interessi delle nuove ge­nerazioni, ora perché valutato co­me «poco utile». Nessuna di queste considerazioni, in realtà, può vera­mente mettere in discussione lo studio del latino e del greco. Non si tratta certo di discipline più difficili o selettive di altre, benché questo pregiudizio sia diffuso; quanto alla loro attualità, se non si vuole corre­re il rischio di rincorrere il nuovo a tutti i costi, richiede una equilibra­ta valutazione del rapporto fra tra­dizione e innovazione; infine, lo studio è un’attività orientata alla formazione, che serve a preparare personalità complete, cultural­mente sensibili e per questo capa­ci, con l’elasticità tipica della for­mazione umanistica, anche di ac­quisire le competenze tecniche e le abilità necessarie nella professio­ne. Nella vita di tutti i giorni, a rigo­re, non servono né i verbi depo­nenti e gli aoristi, né i loga­ritmi e la trigonometria: ma il fatto è che non si stu­dia – non si deve studiare – solo ciò che «serve» nel quotidiano (o che può es­sere funzionale al mondo del lavoro). In una lezione all’Università di Yale, Do­nald Kagan, uno dei massi­mi storici statunitensi di storia greca, alla domanda «Perché studiare la storia della Grecia anti­ca? », ha risposto: «Perché è terribil­mente interessante». La risposta vale certamente anche per il greco e il latino: ma è ovvio che non può bastare, perché lo studio delle lin­gue classiche richiede un impegno decisamente gravoso, che va af­frontato prima che possa svilup­parsi negli studenti un interesse disciplinare sufficiente a motivarlo.
Nel tentativo di trovare argomenti cogenti per mantenere lo studio del latino e del greco nel nostro or­dinamento scolastico, sono state spesso proposte considerazioni in un certo senso estranee a queste discipline. Proporre lo studio del greco e del latino come «allena­mento » della mente è a mio parere scarsamente motivante: è facile o­biettare (ed è già stato fatto) che lo stesso risultato si potrebbe ottene­re aumentando il numero di ore di matematica o, per restare nel cam­po linguistico, introducendo lo stu­dio del cinese o dell’arabo. Ad ana­loghe obiezioni si prestano quelle motivazioni che ritengono la cono­scenza del greco e del latino neces­saria per la comprensione dei lin­guaggi tecnico-scientifici, i cui ter­mini derivano dalle lingue classi­che: quasi che non si potesse im­parare cos’è la dermatologia senza conoscere le radici greche della pa­rola. Insomma, le motivazioni di carattere estrinseco possono essere motivazioni accessorie, ma non devono, a mio avviso, essere messe in primo piano, proprio perché in­trinsecamente «deboli» e assai fa­cilmente contestabili. Un argo­mento più interessante è quello che considera lo studio delle lingue classiche come un valido strumen­to per migliorare le competenze e­spressive nell’italiano parlato e scritto: una buona conoscenza di esse favorirebbe infatti una mag­giore consapevolezza nell’uso del­l’italiano per quanto riguarda orto­grafia, grammatica, lessico e sin­tassi. Fin dai primi anni Sessanta si è parlato, in verità, dello studio del latino in funzione dell’italiano, ma questa proposta non ha mai trova­to applicazione sistematica nella didattica. Non sono mancati anche di recente inviti a sfruttare le po­tenzialità dell’insegnamento delle lingue classiche per la formazione di una matura coscienza linguisti­ca, con possibile applicazione an­che alle lingue moderne diverse dall’italiano, e per la comprensione profonda dei meccanismi della co­municazione in contesti culturali diversi: ma anche questa mi sem­bra una motivazione sostanzial­mente estrinseca, che può essere invocata per il suo carattere acces­sorio, ma che non è di per sé suffi­ciente a giustificare il manteni­mento dello studio del latino e del greco. La risposta che darei alla do­manda «Perché continuare a stu­diare le lingue classiche?» è dun­que la stessa che, da storica, darei a chi mi chiedesse perché dobbiamo dedicare tempo a studiare la storia del mondo antico e non, piuttosto, ad approfondire quella di epoche più vicine a noi. Perché il mondo antico ha elaborato idee, concetti, valori (persona, politica, libertà, democrazia, tanto per citarne alcu­ni) e ha inventato discipline (la sto­ria, la filosofia, la filologia, la scien­za) che sono alla base della civiltà occidentale e degli aspetti più si­gnificativi della sua cultura e del suo stile di vita: un patrimonio che viene considerato ormai acquisito senza, forse, una sufficiente consa­pevolezza della sua origine e della sua stessa fragilità. Di questo patri­monio è necessario alimentare la memoria per mantenere viva, at­traverso di essa, un’identità consa­pevole. Se dunque lo studio del greco e del latino va mantenuto, è soprattutto perché la loro cono­scenza è uno strumento impre­scindibile di confronto intercultu­rale, che permette di accedere a un patrimonio immenso di testi e di penetrare criticamente nel pensie­ro e nella cultura degli antichi, in­dividuando le continuità e ricono­scendo le alterità, senza acconten­tarci di una conoscenza superficia­le degli elementi costitutivi della nostra tradizione culturale. Parlo, ovviamente, di una conoscenza linguistica sufficiente, se non ad af­frontare una lettura diretta, alme­no a verificare la bontà di una tra­duzione: non si tratta di tradurre Tucidide o Tacito a prima vista! A­deguate competenze linguistiche nel settore delle lingue classiche non dovrebbero, dunque, far parte di un sapere specialistico, ma esse­re un patrimonio culturale relativa­mente diffuso. Per questo conside­ro pericolosa l’introduzione del­l’opzionalità dello studio delle lin­gue classiche, spesso ventilata e presente, nel progetto di riforma o­ra in discussione, per il latino nel liceo scientifico e nel liceo delle scienze umane (è comunque pre­vista una riduzione delle ore di lati­no allo scientifico e soprattutto al linguistico; la possibilità di sceglie­re un percorso senza il latino è pre­sente allo scientifico e al liceo delle scienze umane). L’introduzione ge­neralizzata dell’opzionalità in altri sistemi scolastici europei, come quello francese, ha infatti così ri­dotto, nel giro di pochi anni, il nu­mero di chi ha competenze in que­sto ambito, da costringere a cerca­re all’estero persone in grado di continuare a mantenere in vita gli studi classici nelle università e di garantire il reclutamento del futuro corpo docente: una situazione che una grande studiosa della grecità come Jacqueline de Romilly aveva previsto e che si era impegnata a e­vitare, rimanendo inascoltata. Del resto, l’attuale situazione socio­culturale non incoraggia a sperare che studenti (e famiglie) resistano alla tentazione di scegliere percorsi facilitanti; l’opzionalità significhe­rebbe dunque la scomparsa del la­tino (e del greco, qualora si ritenes­se di estenderla) dalla scuola supe­riore. Forse non tutti si rendono conto del fatto che la buona cono­scenza delle lingue classiche è un «di più» che i nostri giovani posso­no mettere in gioco in campo in­ternazionale, dove trovano spesso grandi opportunità; non avrebbe dunque alcun senso distruggere u­na tradizione di formazione che ci rende ormai quasi unici per ade­guarci a standard inferiori che han­no già mostrato inadeguatezza.
«Avvenire» dell'11 marzo 2010

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