10 marzo 2010

Una rete di norme e solidarietà per sostenerci nell'ultima fragilità

Buon testo, da applicare bene
di Assuntina Morresi
Da oggi in poi, l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore sarà regolato nel nostro Paese da una delle poche leggi approvate in condi­visione da maggioranza e opposizione, nei due rami del Parlamento. E ci au­guriamo che la ratifica finale del testo di legge su una problematica così par­ticolare – il prendersi cura delle per­sone nel momento più gravoso della propria vita – avvenuta nonostante il clima pre-elettorale letteralmente in­vivibile di questi giorni, sia un segno della sostanziale tenuta, nonostante tutto, della nostra classe politica.
Tutti d’accordo, quindi, una volta tan­to: la predisposizione di due reti na­zionali di assistenza sanitaria, espres­samente dedicate alle cure palliative l’una, e alla terapia del dolore l’altra, come prevede la nuova legge, signifi­ca la possibilità per ciascuno di noi di poter essere sostenuto e accompa­gnato, concretamente, nei momenti di massima fragilità, quelli nei quali non c’è più speranza di guarigione, ma so­prattutto che non si possono affron­tare in solitudine. Come sappiamo, il termine 'palliative' deriva dal latino 'pallium', cioè 'mantello', una paro­la usata per evocare l’idea di proteg­gere, coprire, o meglio, di essere co­perti e protetti: un 'pallium' che non si è in grado di indossare da soli, per­ché in quei momenti abbiamo biso­gno di qualcuno che ce lo appoggi sul­le spalle, e sappia come farlo.
La dignità della nostra vita, quando la vita se ne sta andando, non si misura dal grado residuo di autosufficienza, ma da se e da quanto siamo nelle con­dizioni di accettare e affrontare il do­lore, e la fine della nostra esistenza. È questo lo scopo ultimo del 'pallium', che implica una rete di rapporti che ci accoglie e ci sostiene. E se non può cer­to essere una legge, seppur buona, a ri­solvere il mistero del dolore e della no­stra finitezza, è anche vero che può aiutare a starci davanti, e ad averne meno timore.
Perché le nuove norme siano real­mente efficaci, sarà necessario un mo­nitoraggio accurato della loro appli­cazione da parte delle autorità coin­volte, per evitare da un lato che gli ar­ticoli di legge rimangano sulla carta, i­nattuati, e, allo stesso tempo, per e­scludere tassativamente ogni possibi­le abuso, tenuto conto della tipologia e della potenza dei farmaci utilizzati in queste circostanze.
Saggiamente, la legge sulle cure pal­liative è stata separata dal testo Cala­brò sulle dichiarazioni anticipate di trattamento (la cosiddetta legge sul fi­ne vita), ancora in discussione in Par­lamento: la possibilità di rifiutare te­rapie mediche, anche anticipatamen­te rispetto a quando potrebbero esse­re somministrate, come prevista dalle Dat, riguarda la libertà di cura e il con­senso informato, e il dibattito di que­sti mesi ha mostrato che chi chiede di non essere curato qualora si trovasse in condizioni particolarmente gravi, non lo fa per mancanza di terapie che rechino sollievo al dolore, ma piutto­sto per un’idea di autodeterminazio­ne spesso esasperata, che si dilata fi­no a comprendere il «diritto a morire». D’altra parte, proprio le storie di Pier­giorgio Welby ed Eluana Englaro, che hanno costretto l’opinione pubblica i­taliana a confrontarsi con queste pro­blematiche, hanno mostrato quanto le cure palliative non c’entrino con le Dat: Welby ed Eluana non erano ma­lati terminali, e il problema del dolore si è posto per entrambi solo quando la loro vita è stata spenta da interventi e­sterni.
Insomma, le idee sul fine vita hanno un contorno più netto, adesso, e qual­che alibi è caduto. Il Parlamento ha prodotto una buona legge, finanziata nonostante le difficoltà economiche del momento. Adesso bisogna appli­carla al meglio.
«Avvenire» del 10 marzo 2010

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