02 marzo 2010

Se la politica ha paura della Tivù

di Paolo Mastrolilli
L’Italia va alle urne fra meno di un mese e la televisione pubblica ha deciso di cancellare i programmi di informazione. Motivo: maggioranza e opposizione non si sono messe d’accordo sulle regole condivise per parlare con obiettività al Paese. E allora, invece di cercare una soluzione, il Consiglio di amministrazione ha deciso di tagliare la testa al toro, o ai conduttori, che non andranno più in onda. Lo ha fatto con i voti della maggioranza di centrodestra, quindi senza avere neanche il pudore, o l’ipocrisia, di nascondere che una parte politica ha imposto la propria volontà all’altra, nonostante la Rai sia finanziata con i soldi di tutti i contribuenti. Se un marziano atterrasse domani in Italia, non sarebbe facile spiegargli la logica di questa scelta.
Le settimane che precedono il voto, in teoria, sono quelle in cui si discutono i temi concreti che stanno più a cuore alla gente: le tasse, l’istruzione, la sanità, la difesa, la sicurezza, i trasporti, la cultura, le grandi questioni etiche che tormentano la società contemporanea. Quale momento nella vita di un popolo civile e democratico ha bisogno di più informazione, se non una campagna elettorale?
Noi invece vedremo film e altri programmi sicuramente bellissimi, in attesa che siano pronte le noiosissime tribune elettorali che faranno scappare anche gli spettatori più masochisti.
Intendiamoci: la televisione può essere usata come potente strumento di propaganda, in chiaro o subliminale, e quindi richiede il massimo equilibro da parte chi la manovra. Ogni storia, ogni tema, ogni idea, ha sempre almeno due facce: chiunque ambisca a fare un’informazione credibile, sa che deve rappresentarle entrambe con obiettività. Se per caso cominciasse a far pendere la bilancia da una parte sola, sacrificando l’onestà professionale per qualunque genere di tornaconto, perderebbe subito il bene più prezioso per ogni giornalista: la fiducia di chi lo legge o l’ascolta. Ma i veri professionisti dovrebbero avere queste regole incise nel loro Dna, senza bisogno di una legge che gliele ricordi o, peggio, gliele imponga.
In Italia non è così, per una serie di ragioni strutturali e culturali che ci costringerebbero a riportare i lettori indietro di almeno un secolo e mezzo. Vi eviteremo questa tortura, ricordando però che la colpa non è tutta dei giornalisti. La politica, in particolare alla Rai, domina la scena. Stavolta non ha trovato l’alchimia necessaria a soddisfare le pretese di tutti, e quindi la maggioranza ha scelto la scorciatoia del buio.
Thomas Jefferson, la cui statua troneggia davanti all’università che assegna i premi Pulitzer, diceva che allo Stato senza giornali preferiva i giornali senza lo Stato. Perché in una democrazia l’informazione, onesta e obiettiva, è più importante delle istituzioni che la governano: le crea, con la libera circolazione delle idee, e poi le controlla, se sa raccontare con equilibrio vizi e virtù del potere. Rinascendo oggi in Italia, Jefferson non crederebbe ai suoi occhi: ha trovato una popolazione che ai giornali senza lo Stato, preferisce lo Stato senza i giornali.
«La Stampa» del 2 marzo 2010

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