02 marzo 2010

L'ultimo Calvino, lontano dalla vita

Nelle Lezioni americane, citando Valéry e Borges, ha celebrato il distacco tra fiction e verità. Ma ha sbagliato i calcoli
di Alessandro Piperno
Ha teorizzato e praticato una letteratura incontaminata, oggi i romanzi sono pieni di realtà. Si proponeva di colloquiare con scrittori e lettori del 2000, ma in realtà stava flirtando con i gusti del suo tempo, Gli scrittori non fanno altro che saccheggiare la vita. A volte per necessità, a volte con impudica goffaggine
C'è un momento, a metà Ottocento, in cui la Letteratura, stanca di infangarsi gli stivaletti nelle brughiere, decide di rintanarsi in casa: a parlare con sé di se stessa. Per comodità si identifica tale gesto isolazionista con uno scritto in cui Edgar Allan Poe svela i segreti della composizione poetica. Scagliandosi contro lo spontaneismo romantico. Spiegando che la combinazione letteraria è questione di cervello (non di cuore). Che occorre smascherare i ciarlatani che dicono di comporre «in uno stato di splendida frenesia». E che bisognerà trattare il lettore per l'ingenuo che è: servendogli piatti ben meditati. È a questo grande atto autarchico che ripenso risorgendo dalla lettura di Lezioni americane di Italo Calvino. (In realtà si tratta di una rilettura, ma trovo esecrabile l'espressione «ho appena riletto»). Una lettura che mi è stata commissionata. Che mi ha fornito un'opportunità per fare il punto. Non solo su Calvino. Ma su una certa deriva della Letteratura della fine del secolo scorso e di conseguenza anche di una certa deriva della Letteratura dell' inizio di questo secolo qui. È utile, infatti, ricordare che il meraviglioso titolo Lezioni americane, dato alle sei conferenze che Calvino stava preparando nel 1985 per l'università di Harvard e che, per morte sopraggiunta, non sarebbe mai riuscito a leggere, è postumo. Il titolo provvisorio era Sei proposte per il prossimo Millennio. L' intento era di consegnare agli scrittori e ai lettori del nuovo millennio, ovvero a noi, i prismi ottici attraverso cui guardare la Letteratura. Pietro Citati racconta che, quando alla fine degli anni Cinquanta divenne amico di Calvino, questi non solo «conosceva pochi libri», ma non amava particolarmente scrittori complessi come Musil, Nabokov, Gadda, Valéry. Ovvero tutti quelli (la fonte è sempre Citati) cui si sarebbe avvicinato negli anni della maturità, e che avrebbero esercitato un'influenza radicale sulla sua poetica. E che costituiscono la spina dorsale di Lezioni americane. Un'opera che potrebbe intitolarsi Auto-apologia di un creatore vicino alla fine. Tutte le dichiarazioni di estetica di un grande scrittore esalano un fresco sorgivo profumo di Primavera. Leggi le lettere di Flaubert, le ultime pagine del Tempo Ritrovato, le lezioni universitarie di Nabokov e, sebbene ciascuno esprima un' idea artistica alternativa, ogni volta ti ritrovi a pensare che tutti abbiano ragione, sebbene, a rigor di logica, almeno due su tre si stiano sbagliando. A meno di non considerarle «auto-apologie». Di valore capitale per chi le ha scritte e per chi desidera addentrarsi nell' opera di chi le ha scritte. Quindi non custodi di valori estetici universali ma passepartout per accedere a un ecosistema autonomo. Auto-apologie che contribuiscono alla magica suggestione creata dall' opera completa di un grande autore. Certe lettere di Flaubert impreziosiscono la lettura di Madame Bovary non meno di quanto quell' adorabile sciocchina renda universali e insostituibili le elucubrazioni epistolari del suo creatore. Questo vale anche per l' opera di Calvino e Lezioni americane. Se scelgo di concentrarmi sulla quinta - dedicata alla Molteplicità - è perché in essa Calvino mette le carte in tavola. Ovvero fa quello che solitamente evita di fare: si scopre. Attraverso l' elegante gioco delle citazioni traccia un itinerario di lettura esemplare. Affida l' incipit a una lunga citazione del Pasticciaccio di Gadda: uno scrittore che così poco gli somiglia, nei confronti del quale Calvino non può dissimulare l' incomprensione generata in noi da ogni grandezza antitetica alla nostra. E chiude su Queneau, autore in compagnia del quale Calvino doveva sentirsi più a suo agio. Questa faccenda delle citazioni è di estrema importanza. Tempo fa Mario Lavagetto, proprio parlando di Lezioni americane, si chiedeva «se la citazione (ogni citazione) non finisca per configurarsi come un' arte, o un esercizio, dell' illecito». Davvero ben detto! Se la critica ha il diritto di essere faziosa, beh, allora anche la più asettica citazione può diventare diabolico strumento di persuasione fraudolenta e di propaganda. E allora tornando alla quinta lezione si intende perché risultino non solo interessanti gli scrittori citati da Calvino, ma anche la sequenza con cui compaiono sulla scena. Dopo Gadda è il turno di Musil, dopo Musil arriva Proust. Ma soprattutto ecco Flaubert e Mallarmé. In coppia. Due scrittori che, come Calvino ricorda, per tutta la vita hanno familiarizzato con l' idea di nulla. «Un libro sul niente» invocava Flaubert. Il Livre era il sogno di Mallarmé: ovvero il Libro capace di contenere la sapienza dell' universo senza lasciarsi da questo contaminare. Calvino accomuna quei due sommi nullificatori. (C'è da precisare: due nullificatori falliti. L'Education sentimentale o L'après-midi d' un Faune recano fangose tracce di mondo). Ma per Calvino è solo l' inizio, l'antipasto. Ha appena finito di elogiare il genio di Paul Valéry («che non mi stanco mai di rileggere»), quando scrive: «Nella narrativa se dovessi dire chi ha realizzato perfettamente l'ideale estetico di Valéry d' esattezza nell'immaginazione e nel linguaggio, costruendo opere che rispondono alla rigorosa geometria del cristallo e all'astrazione d'un ragionamento deduttivo, direi senza esitazione Jorge Luis Borges». Ecco, ci siamo. È qui che Calvino voleva arrivare: alla «rigorosa geometria del cristallo e all'astrazione d'un ragionamento deduttivo». Valéry e Borges sono i paladini da consegnare al nuovo millennio. Entrambi hanno conferito un lustro canonico al genere letterario anfibio (a Calvino assai consono) che i francesi chiamano poème en prose. Entrambi usano la Letteratura per mostrare quanto essa sia ingannevole. E certo Calvino è consapevole del fatto che nessuno più di Valéry e Borges abbia saputo giocare con l'idea che la Letteratura sia un gioco, un modo per correggere gli errori della natura. Se il mondo sta qui, la Letteratura deve stare da un'altra parte, e viceversa. Guai a invitarli alla stessa cena. Valéry e Borges. Non sta certo a me ricordare la statura del loro genio. Ma lasciatemi dire che si tratta di sublimi corruttori del gusto pubblico. Il piacere intellettuale che ti dà leggerli ti fa anche capire perché Proust ritenesse che un eccesso di intelligenza potesse rivelarsi fatale alla fiction. Leggendoli ti dici: forse, con buona pace di Poe, avevano ragione i romantici a tirarsela con l' ispirazione e con la sensibilità. Ma capisci anche perché Calvino evochi i fantasmi di Valéry e di Borges proprio nella lezione sulla Molteplicità. Perché niente meglio della Molteplicità dà ragione del mondo e delle sue insidie, e nessuno più di Valéry e Borges sembra attrezzato a tenere a bada (con che eleganza!) tutto quel caos. Così Calvino, dopo averli omaggiati, passa agli epigoni. Si sdilinquisce su Queneau. E mostra entusiasmo per Vita: istruzioni per l' uso di Pérec, un libro così malinvecchiato. Calvino forse crede di colloquiare con gli scrittori e con i lettori del nuovo Millennio. Ma in realtà, come è naturale che sia, sta flirtando con i gusti del suo tempo. È il 1985. Un sacco di cose sono state assassinate: l' Io, l' Autore, i nomi e i cognomi dei personaggi, la sana vecchia psicologia, l' ipotassi. In giro si fa un gran dibattere su strutture e decostruzioni, neanche fossimo diventati tutti architetti. Il fantastico e il magico sono terribilmente à la page. In Francia il Nouveau Roman ha fatto terra bruciata. In America tutti credono che dopo John Barth e Pynchon non ci possa essere altro. In Italia trionfano Calvino e Eco. Questo il contesto ambientale in cui scrive Calvino. Un mare nel quale lui sguazza felice. Jean Starobinski ha scritto che Calvino «è stato affascinato da tutto ciò che lo faceva assistere a una storia: libri illustrati, film, racconti». Che non sia il libresco la casa in cui Calvino è andato a rintanarsi? Che non sia il mito della favola ben raccontata che lo ha contagiato? Che non sia un eccesso di intelligenza e una nevrotica ricerca di nitore che gli ha raggelato la vena? Quel mito del cristallo su cui tanto insiste. Davvero la Letteratura si riduce a un cristallo? Amleto è un cristallo? La Commedia Umana è un cristallo? L' Ulisse è un cristallo? D' altro canto il tragitto disegnato dalla quinta lezione - da Gadda a Queneau - ci offre in controluce la parabola compiuta dall' opera di Calvino: il rattrappirsi su se stessa. Ne è passato di tempo da Il sentiero dei nidi di ragno e dalla trilogia. Le ultime cose date alle stampe sono Se una notte d' inverno un viaggiatore in cui il distacco tra vita e Letteratura viene celebrato da un freddo e rifinito divertissement (alla Queneau). E Palomar, elegante omaggio a Monsieur Teste di Valéry. Lezioni americane di Calvino si configura come un geniale antidoto a Mimesis di Auerbach. Se Auerbach - sulla scorta di Saint-Simon, di Prévost, di Flaubert - ha cercato di porre i pilastri del ponte immaginario che unisce il mondo sensibile alla Letteratura, è come se Calvino quei pilastri avesse voluto minarli con la dinamite. Facendo male i suoi calcoli. Perché la Letteratura che, ai suoi tempi, sembrava aver raggiunto una specie di saturazione, ingolfata com' era in calligrafici giapponesismi, prenderà altre strade. Come notava ieri Paolo Di Stefano, da questa stessa tribuna, è come se di questi tempi la Letteratura non potesse fare a meno di saccheggiare la vita. Che importa se solo di rado lo fa spinta da inderogabili necessità, e il più delle volte con rupestre impudica goffaggine. L' importante è che il contatto sia stato ristabilito. Oggi leggiamo Alice Munro, Joyce Carol Oates, Mario Vargas Llosa... E ci piace infangarci le scarpe.
«Corriere della Sera» del 1 marzo 2010

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