05 marzo 2010

Così Borges riabilita i traduttori

di Roberto Mussapi
Borges è sempre Borges. Anche in un libro messo insieme un po’ così e così, di testi scritti tra il 1919 e il 1929, dal piglio spesso occasionale, e dal titolo che pare una parodia dell’opera del grande maestro anglo-argentino, Il prisma e lo specchio (Adelphi, pagine 284, euro 25,00), anche in un contesto non eccelso, brillano pagine rivelanti, come quelle sulla traduzione. Sulla possibilità o meno di tradurre opere letterarie. Sappiamo che tale possibilità è stata ed è spesso messa in dubbio, e da molto tempo si discute in materia. Le riflessioni di Borges sull’argomento sono smaglianti, uniscono chiarezza, evidenza e libertà come accade nelle sue pagine più alte. Innanzi tutto Borges demolisce la famosa definizione italiana 'traduttore­traditore', ascrivendone la fortuna alla facile pronunciabilità, simile a quella di un proverbio o di una banalità popolare, al piacere della maldicenza che provano molti quando capiti l’occasione di denigrare il lavoro altrui, alla superficialità stessa con cui i due termini, traduttore e traditore, sono assimilati. Un’opera letteraria è traducibile, afferma Borges, e sono traducibili anche opere di poesia. Sono assolutamente d’accordo, anche nei fatti, e all’obiezione che qualcosa del suono e dell’incanto originale andrà inevitabilmente perduto, piuttosto che argomenti difensivi, preferisco contrapporre l’assunto positivo di Yves Bonnefoy, grande poeta e traduttore in francese di Shakespeare. Qualcosa andrà perduto, ma qualcosa può anche aggiungersi. Una traduzione può anche arricchire un testo, non solamente impoverirlo. Certo si perde qualcosa di ineffabile, che nella lingua originale arriva subito, e in pieno, quando nella traduzione arriva (se arriva, se cioè la traduzione è buona, ma questo è ovvio) anche in pieno, ma non subito, in più tempi, insomma dopo qualche lettura ripetuta o dopo aver letto e dimenticato. Il che ha anche il fascino della reminescenza platonica, che prende forma a poco a poco e per vie imperscrutabili Condivido l’affermazione assoluta di Borges, sottesa con eleganza: quando un vero poeta scrive una poesia, non è solo un artigiano che sta mettendo in ordine e armonia delle parole, ma un veggente che svela, mette in luce un archetipo che attendeva di essere sottratto alla tenebra dell’oblio. 'Trovatore', secondo la definizione medievale del poeta: colui che trova, scopre, e rende percettibile ciò che prima era impercettibile, quindi, al mondo, inesistente. Chi traduce quella poesia ne amplifica e prolunga la vita, diffonde in altre lingue la visione: tradurre quindi non è solo un’attività letteraria, ma una forma di arricchimento del mondo, una forma lucida e disciplinata di amore. E la traduzione è un atteggiamento che precede il fatto letterario: Alessandro Magno che sogna di fondere l’Occidente della polis greca con l’Oriente degli imperi fastosi è il prototipo del grande traduttore. Marco Polo che, veneziano e cristiano, diviene ambasciatore del Gran Khan, signore di tutti i Tartari, è un archetipo di traduttore. Chi nega la traduzione nega la comunicazione, e automaticamente (ma non innocentemente) postula un universo dialettale incomunicabile e incomunicante, di fatto retrivo e razzista.
«Avvenire» del 5 marzo 2010

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