10 marzo 2007

L'alleanza tra famiglia e «prof» s'è infranta

Problema più grave d'altri
di Marina Corradi
Dalle cronache di ieri: «Bari, preside picchiato da genitori, 10 giorni di prognosi». «Bergamo, tredicenne molestata a scuola da coetanei». «Napoli, arrivano 52 psicologi nella scuola frequentata dal branco che ha violentato una coetanea». «Cesena, offre all'insegnante una "caramella" all'hashish».
Aule irrequiete come periferie del Far West, e professori come impotenti sceriffi. Troppe ne succedono, nelle scuole italiane, perché si possa parlare di "casi", di episodi amplificati dai giornali. Su certi siti Internet si trovano, per gli amatori, gli ultimi video girati tra i banchi: dai ragazzi che malmenano il compagno handicappato al professore sbeffeggiato. E se task forces di psicologi vengono spedite in una scuola di Napoli come a un fronte, se non sapendo che fare ci si affretta a vietare i cellulari in aula - quasi che quei video non fossero solo il sintomo di qualcosa di più profondo - converrà riconoscere che siamo di fronte a un'emergenza educativa quale, nel pure cronico malessere della scuola italiana, non si era mai vista.
La storia del preside di Bari picchiato dai genitori di un'alunna che aveva invitato a tornare a frequentare la scuola, in questo senso è esemplare. C'è un professore che vuole fare il suo mestiere, e si preoccupa di una ragazza che abbandona la scuola dell'obbligo. I parenti, convocati, lo riempiono di botte. E sarà pure la storia estrema di un quartiere "difficile", ma lo schema proposto si ripete, pure senza violenze, ogni giorno. Quell'alleanza educativa che sembrava scontata fra la scuola e i genitori, è sempre più spesso infranta: i genitori difendono, o credono di difendere, il loro "bambino" dall'intrusione o dalla severità di un professore. Caduto nell'oblio l'obiettivo comune, cioè l'educare, le famiglie sembrano credere che la scuola sia lì solo per insegnare in qualche modo qualcosa - le famose "competenze" del gergo buro-scolastico di questi anni - e si ergono fieramente in difesa del rampollo, quand o l'insegnante abbia un estremo sussulto di autorità.
Autorità, e autorevolezza, sono in effetti le parole scardinate alla radice del deragliamento cui assistiamo. Il presupposto che occorrano, agli alunni, dei maestri è stato cancellato nell'onda lunga del '68. Sono passati 40 anni, e molti degli stessi professori sembrano chiedersi a volte cosa sono lì a fare, e in nome di cosa possano pretendere rispetto e attenzione. Come avendo abdicato dalla pretesa di un'autorità il cui etimo è augere, "far crescere". Come dimentichi che educare è ben altro che fornire "competenze"; oppure coscienti della loro sconfitta, e scoraggiati.
E - come accadeva una volta quando per qualche minuto la cattedra restava vuota - in aula può succedere di tutto. Bullismo, lo chiamano, ed è vero, ma davvero gli sbandati delle nostre scuole sono i primi protagonisti del fallimento educativo? Non lo sono invece i genitori, come a Bari, strenuamente schierati in difesa dei figli; e i professori che hanno "competenze", tutte tranne una: la capacità e la passione di educare, di introdurre un ragazzo nella realtà?
Ballano, si menano, si filmano gli studenti in queste aule vuote, abbandonate da una generazione di padri mancati. Ogni tanto un insegnante di buona volontà tenta di alzare un argine, e si ritrova contro famiglie infuriate. 52 psicologi marciano come una falange verso una scuola media del Sud dove in sette han violentato una bambina. C'è una gran caccia ai cellulari, e un assessore campano in proposito balbetta che occorre insegnare ai ragazzi "un uso corretto delle nuove tecnologie". C'è di tutto a scuola, task forces mediche, assistenti sociali, set cinematografici. Assenti, all'appello, solo gli adulti che dovrebbero educare. Assenti, all'appello, solo noi.
«Avvenire» del 4 maro 2007

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