11 aprile 2010

L'uomo che soffre si specchia nella sindone

di Franco Garelli
«Specchiatevi nella Sindone»: lo slogan coniato dal cardinal Poletto per questa Ostensione della Sindone può valere non soltanto per i pellegrini credenti, ma per molti altri visitatori. Anche chi non crede che quel lino abbia avvolto il corpo di Cristo, anche chi è mosso alla visita da curiosità turistica o culturale non potrà fare a meno di essere colpito dai segni di passione e morte impressi su quel telo. L’immagine si svela a poco a poco al visitatore, e con essa il volto di un uomo a un tempo severo e sereno, la figura di una persona crocifissa, che è stata flagellata, incoronata di spine, inchiodata su una croce. Al di là che si pensi o no che si tratti dell’ «Ecce Homo» dei Vangeli, questa è la forza di attrazione che da secoli viene esercitata dall’icona di dolore conservata nel Duomo di Torino.
Ovviamente i sentimenti cambiano a seconda degli stati d’animo e delle motivazioni che spingono la gente a non mancare a un appuntamento assai raro nel tempo. Chi sono e che cosa cercano i pellegrini della Sindone? Il popolo che più si mobilita è certamente quello della devozione popolare, in gran parte veicolata dalle diocesi e dalle parrocchie, che è alla continua ricerca di volti e segni di una fede religiosa sensibile e «concreta». Questo popolo, che in genere affolla i molti santuari disseminati nel Paese, è particolarmente attratto dall’icona della Sindone, in cui vede i segni tangibili di una passione di Cristo che è al centro del suo sentire religioso. La «sacra Sindone» non è pregata da questi fedeli (anche se molti di essi ne conservano un’immagine in casa), ma costituisce per i più una prova di seconda mano della trascendenza. Il Dio che non si vede, si manifesta in un lino che rispecchia i racconti del Vangelo.
Finalmente è possibile incontrare «la faccia» di Gesù, verificare i segni della sua sofferenza umana, dare un volto a un Dio che la teologia cattolica ha reso nel tempo impalpabile e indefinibile. A fianco dei fedeli più devoti, vi è poi un vasto insieme di visitatori - rappresentato da credenti più moderni, ma anche da non credenti o da persone in ricerca - che si recano alla Sindone per vivere un’esperienza significativa sia dal punto di vista umano che spirituale. Per costoro il lenzuolo di Torino ha un carattere sacro, anche se non è riconducibile alla vita di Cristo. Si tratta di un reperto umano così raro, serio e impegnativo da giustificare un incontro ravvicinato, che è a un tempo di conoscenza e di contemplazione. La sacralità sta nell’uomo dei dolori impresso in quel lino, capace di richiamare la gente al senso della finitudine umana, al mistero della sofferenza e della passione, alle cose che contano; tutti sentimenti che affollano molti uomini e donne del nostro tempo in particolari circostanze, quando di fronte a casi limiti si riflette maggiormente sulle questioni ultime.
Infine, una parte dei visitatori della Sindone è rappresentata dai turisti o dai curiosi, da quanti entrano nel Duomo di Torino per la rarità o l’importanza dell’evento, il richiamo dei mass media, la voglia di non perdersi la grande occasione, la possibilità di dire ai nipoti «c’ero anch’io». E’ in questo gruppo che prevalgono gli atteggiamenti più disincantati, anche se il linguaggio evocativo del «sacro lino» può operare qualche «conversione». La Sindone dunque è in grado di richiamare pubblici diversi, i cui sentimenti variegati sono stati ben descritti da un’indagine condotta durante l’Ostensione di oltre dieci anni fa. Pochi sono rimasti freddi o insoddisfatti, mentre i più di fronte a questa icona del dolore umano si sono commossi, emozionati, hanno provato stupore e angoscia, si sono identificati. Per molti la visita è stata un’intensa esperienza religiosa, altri sono stati scossi umanamente. Ovviamente gli scettici se ne staranno a casa o andranno al mare. Ma la maggior parte dei pellegrini della Sindone è ben cosciente che sarà un’esperienza arricchente. Riflettere sul dolore di Cristo o di un uomo antico può favorire una maggior comprensione di sé e delle sorti del mondo.
«La Stampa» dell'11 aprile 2010

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