di Enzo Bettiza
Secondo Lech Walesa questa tragedia equivale a una «seconda Katyn», una «seconda decapitazione», un «secondo annientamento delle élite polacche». Si potrebbe anche aggiungere che equivalga all’ennesima maledizione che l’antica e nobile nazione slava ha continuato a subire fin dal 1772, l’anno della prima spartizione fra Russia, Prussia e Austria. I tentativi, compiuti dai potenti vicini, di eliminare la Polonia dalla faccia dell’Europa sono stati permanenti e spesso atroci per oltre due secoli. La verità sull’eccidio perpetrato dai russi nel 1940, di cui le fosche foreste di Katyn sono diventate il simbolo estremo, è riemersa in un’eco esponenziale da un ambiguo silenzio attraverso il cortocircuito tra due fatti accaduti, questa settimana, l’uno dopo l’altro.
Giovedì: l’incontro clamoroso a Katyn fra il primo ministro Putin e quello polacco Tusk, in cui abbiamo visto l’erede dei carnefici e l’erede delle vittime rendere omaggio, insieme, alla memoria di ventiduemila polacchi trucidati soltanto perché polacchi. Sabato: il funesto disastro aereo che nei pressi di Katyn uccide il presidente polacco, Lech Kaczynski, insieme con la moglie e un seguito di 94 personaggi di forte rilievo, ministri, economisti, militari, prelati, figli e nipoti delle vittime. Insomma il bulbo o quasi dell’attuale classe dirigente di Varsavia. Ha detto il fondatore di Solidarnosc ed ex presidente Walesa: «Una pesante perdita per la nazione: è morta ancora una volta la sua élite». Ed è morta fatalmente, come in un magico paradigma d’eterno ritorno, nella stessa provincia russa in cui fu sterminata la prima.
Non a caso a Varsavia, a prescindere dal giudizio ideologico sui deceduti, l’impatto della sciagura sta provocando sulle masse una commozione viscerale profonda, da catastrofe nazionale, con assembramenti carichi di tensione psicologica attonita e nervosa. Appaiono qua e là cartelli segnati da un paragone disperato: «Katyn 1940 - Katyn 2010». Se dalle due tragedie polacche, dalla passata e dalla presente, si può trarre una qualche consolazione, essa soprattutto risiede nel fatto che il nome e la verità di Katin, di cui le ultime generazioni europee non sapevano nulla, stanno facendo in queste ore il giro del mondo. Su uno dei più malefici crimini del Grande Terrore dell’era staliniana, negato e mistificato per mezzo secolo dai russi, addossato alle truppe tedesche, rimosso ostinatamente dalle sinistre europee, il mondo e in particolare i giovani ignari non possono più chiudere gli occhi.
Fino alla caduta del comunismo, i sovietici avevano tentato di confondere le carte asserendo che il massacro era stato consumato dai nazisti in una località bielorussa chiamata Hatyn pressoché omonima di Katyn. No. Adesso, più che mai, anche quelli che non volevano sapere sanno che di Katyn ce n’è una sola. Su un piano strettamente politico, meno fatalistico ed emotivo, restano però in piedi alcune domande cui non si può fare a meno di tentare una prima risposta. Perché mai, per la commemorazione in territorio russo di un evento così grave, coinvolgente la memoria collettiva di un popolo perseguitato dalla storia, è stata presa a Varsavia la strana decisione di inviare sul luogo due separate delegazioni ufficiali e non una sola? Perché, in una circostanza storica così incisiva e dolente per la Polonia, il capo dello Stato e il capo del governo, con i rispettivi seguiti, non sono partiti insieme alla volta di Smolensk e di Katyn? Oppure, perché si sono incontrati per primi i capi dei due esecutivi, Tusk e Putin, e non i due presidenti Kaczynski e Medvedev? Le risposte che si possono dare sono multiple e tutt’altro che semplici.
Anzitutto, chi era il defunto Kaczynski? A suo tempo sindaco popolare di Varsavia, anticomunista di ferro, filoamericano profondamente ostile ai russi, gemello dell’ex primo ministro Jaroslaw, leader del partito populista di destra Diritto e Giustizia, egli non amava né il conservatore pragmatico Tusk né tanto meno il gelido «uomo della forza» Putin. Essi, a loro volta, non lo amavano per niente. La Piattaforma Civica di Donald Tusk, movimento di destra moderata, era, è e sarà nelle prossime anticipate elezioni presidenziali il principale rivale del partito estremista di Jaroslaw Kaczynski. È possibile che questi, assomigliando fra l’altro come un clone da laboratorio al defunto gemello, ponga la propria candidatura di successore biologico nonché ideologico alla suprema carica. Si sa, d’altronde, che alla destra più nazionalista non è mai andato a genio il pragmatismo con cui Tusk persegue una normalizzazione realistica nei rapporti con la Russia; molti, forse lo stesso presidente perito nel disastro, ne hanno criticato il cauto comportamento di giovedì a Katyn, al fianco di un Putin che non chiedeva perdono alla Polonia e metteva sullo stesso piano le vittime polacche e russe di Stalin.
Si sa anche che i russi, in particolare Putin che non desiderava incontrare Lech Kaczynski, avevano posto diversi ostacoli diplomatici alla sua richiesta di recarsi a Katyn, in quanto capo di Stato polacco. Alla fine avrebbero dato l’assenso a una visita separata e posteriore a quella del premier Tusk. Per fatalità il ritardo, causando la decimazione dell’establishment al potere in Polonia, ha sùbito rievocato fra i polacchi lo spettro quasi di un secondo genocidio d’élite. Putin ha fiutato i rischi, anche internazionali, di una situazione incandescente, ed è per questo probabilmente che ha voluto assumere la guida in persona della commissione d’inchiesta sulla sciagura. Cercherà ora di coronare il ruolo e l’immagine del pompiere rincontrando, sempre a Smolensk, l’omologo Tusk.
Giovedì: l’incontro clamoroso a Katyn fra il primo ministro Putin e quello polacco Tusk, in cui abbiamo visto l’erede dei carnefici e l’erede delle vittime rendere omaggio, insieme, alla memoria di ventiduemila polacchi trucidati soltanto perché polacchi. Sabato: il funesto disastro aereo che nei pressi di Katyn uccide il presidente polacco, Lech Kaczynski, insieme con la moglie e un seguito di 94 personaggi di forte rilievo, ministri, economisti, militari, prelati, figli e nipoti delle vittime. Insomma il bulbo o quasi dell’attuale classe dirigente di Varsavia. Ha detto il fondatore di Solidarnosc ed ex presidente Walesa: «Una pesante perdita per la nazione: è morta ancora una volta la sua élite». Ed è morta fatalmente, come in un magico paradigma d’eterno ritorno, nella stessa provincia russa in cui fu sterminata la prima.
Non a caso a Varsavia, a prescindere dal giudizio ideologico sui deceduti, l’impatto della sciagura sta provocando sulle masse una commozione viscerale profonda, da catastrofe nazionale, con assembramenti carichi di tensione psicologica attonita e nervosa. Appaiono qua e là cartelli segnati da un paragone disperato: «Katyn 1940 - Katyn 2010». Se dalle due tragedie polacche, dalla passata e dalla presente, si può trarre una qualche consolazione, essa soprattutto risiede nel fatto che il nome e la verità di Katin, di cui le ultime generazioni europee non sapevano nulla, stanno facendo in queste ore il giro del mondo. Su uno dei più malefici crimini del Grande Terrore dell’era staliniana, negato e mistificato per mezzo secolo dai russi, addossato alle truppe tedesche, rimosso ostinatamente dalle sinistre europee, il mondo e in particolare i giovani ignari non possono più chiudere gli occhi.
Fino alla caduta del comunismo, i sovietici avevano tentato di confondere le carte asserendo che il massacro era stato consumato dai nazisti in una località bielorussa chiamata Hatyn pressoché omonima di Katyn. No. Adesso, più che mai, anche quelli che non volevano sapere sanno che di Katyn ce n’è una sola. Su un piano strettamente politico, meno fatalistico ed emotivo, restano però in piedi alcune domande cui non si può fare a meno di tentare una prima risposta. Perché mai, per la commemorazione in territorio russo di un evento così grave, coinvolgente la memoria collettiva di un popolo perseguitato dalla storia, è stata presa a Varsavia la strana decisione di inviare sul luogo due separate delegazioni ufficiali e non una sola? Perché, in una circostanza storica così incisiva e dolente per la Polonia, il capo dello Stato e il capo del governo, con i rispettivi seguiti, non sono partiti insieme alla volta di Smolensk e di Katyn? Oppure, perché si sono incontrati per primi i capi dei due esecutivi, Tusk e Putin, e non i due presidenti Kaczynski e Medvedev? Le risposte che si possono dare sono multiple e tutt’altro che semplici.
Anzitutto, chi era il defunto Kaczynski? A suo tempo sindaco popolare di Varsavia, anticomunista di ferro, filoamericano profondamente ostile ai russi, gemello dell’ex primo ministro Jaroslaw, leader del partito populista di destra Diritto e Giustizia, egli non amava né il conservatore pragmatico Tusk né tanto meno il gelido «uomo della forza» Putin. Essi, a loro volta, non lo amavano per niente. La Piattaforma Civica di Donald Tusk, movimento di destra moderata, era, è e sarà nelle prossime anticipate elezioni presidenziali il principale rivale del partito estremista di Jaroslaw Kaczynski. È possibile che questi, assomigliando fra l’altro come un clone da laboratorio al defunto gemello, ponga la propria candidatura di successore biologico nonché ideologico alla suprema carica. Si sa, d’altronde, che alla destra più nazionalista non è mai andato a genio il pragmatismo con cui Tusk persegue una normalizzazione realistica nei rapporti con la Russia; molti, forse lo stesso presidente perito nel disastro, ne hanno criticato il cauto comportamento di giovedì a Katyn, al fianco di un Putin che non chiedeva perdono alla Polonia e metteva sullo stesso piano le vittime polacche e russe di Stalin.
Si sa anche che i russi, in particolare Putin che non desiderava incontrare Lech Kaczynski, avevano posto diversi ostacoli diplomatici alla sua richiesta di recarsi a Katyn, in quanto capo di Stato polacco. Alla fine avrebbero dato l’assenso a una visita separata e posteriore a quella del premier Tusk. Per fatalità il ritardo, causando la decimazione dell’establishment al potere in Polonia, ha sùbito rievocato fra i polacchi lo spettro quasi di un secondo genocidio d’élite. Putin ha fiutato i rischi, anche internazionali, di una situazione incandescente, ed è per questo probabilmente che ha voluto assumere la guida in persona della commissione d’inchiesta sulla sciagura. Cercherà ora di coronare il ruolo e l’immagine del pompiere rincontrando, sempre a Smolensk, l’omologo Tusk.
«La Stampa» dell'11 aprile 2010
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