E' uscito il primo "Meridiano" Mondadori dedicato ai maggiori romanzi di Zola. La sua opera non si esaurisce nel "naturalismo" con cui è stato etichettato, ma scava nelle passioni
di Giuseppe Conte
Ricordo che la prima volta che sentii nominare Zola non fu né in un’aula scolastica, né in una biblioteca. Fu nel luogo che meno ci si aspetterebbe: in una chiesa di padri cappuccini dove da adolescente andavo a messa, durante la predica di un frate che con grande ardore polemico usò diversi concetti dello scrittore francese per condannarli e rovesciarli. Scopersi poi che Zola era morto da più di mezzo secolo; la foga del predicatore me lo aveva fatto apparire come uno scandaloso contemporaneo.
Oggi nessuno legge più Zola, in Italia. Forse proprio perché la fama dello scrittore fu oscurata da quella del militante, impegnato in battaglie anticlericali spesso grossolane e in battaglie civili, come quella celeberrima, e generosa, a difesa del capitano Dreyfus. Émile Zola però non è soltanto l’autore del J’accuse. Non è soltanto l’intellettuale engagé, figura che la Francia ha espresso sovente dal proprio grembo di Paese che assegna un ruolo insieme ribelle e pedagogico alla letteratura, da Voltaire a Camus a Sartre. Zola (1840-1902) è innanzi tutto un grande, un grandissimo romanziere.
Il «Meridiano» Mondadori a lui dedicato (Romanzi, pagg. CLI-1642, euro 55) e curato ottimamente da Pierluigi Pellini, ci offre la possibilità di risentire tutto il terribile fascino mitopoietico e attuale di questo scrittore in tre romanzi come Thérèse Raquin, L’Assommoir e Nanà.
Etichettato come padre del naturalismo, fonte principale del verismo di Giovanni Verga, banditore di una poetica positivista, determinista, sino alla crudeltà in cui l’osservazione del reale diventa anatomia e autopsia, Zola è certamente un romanziere che sposta l’asse dell’interesse letterario verso il malessere popolare, l’osservazione impietosa dei costumi nelle classi inferiori, il linguaggio gergale. Basta riaprire L’Assommoir, questo libro corale, cupo e senza apparente redenzione, per capirlo. Ma Zola non è soltanto questo. In lui il realismo non esclude momenti simbolici, né quella capacità di «composizione musicale» che perfino Paul Valéry, certo non tenero con il genere romanzo, riconobbe all’autore del ciclo dei Rougon-Macquart.
Giornalista rimase sempre. Attento al mondo intorno a lui, animato da una voglia di descrivere e capire la contemporaneità. E non gli fece male. Scrittore fluviale, pronto a cogliere i cambiamenti epocali, Zola sa anche che al fondo la realtà rimane sempre la stessa negli archetipi che muovono gli individui e le società. E la sua descrizione di un mondo degradato, senza sentimenti, senza autenticità, non esclude il senso del tragico, come poi farà il romanzo novecentesco, sino a rischiare la dissoluzione. Zola, sperimentatore, ribelle, crede ancora, come nota opportunamente il curatore del volume di cui parliamo, nella priorità della letteratura sulla politica, e dunque assegna alla letteratura un valore di conoscenza, se non di trasformazione, delle cose.
Dall’immersione nell’universo Zola sono uscito rafforzato in una mia convinzione: che il romanzo è la forma più alta di conoscenza delle dinamiche dei rapporti sociali, come si vede nella storia della figlia di Gervaise e dell’operaio Coupeau già incontrati nell’Assommoir, nell’aspra vicenda della cortigiana Nanà. Ed è insieme e soprattutto la più alta forma di conoscenza delle dinamiche dei rapporti tra corpo e corpo, psiche e psiche di individui che il destino mette in contatto. Thérèse Raquin, il libro con cui Zola inizia la sua carriera di autore di successo, è un’opera dall’andamento stringente e terrificante. La Parigi e la società del Secondo Impero, magistralmente tratteggiate, sono lo sfondo di un dramma dagli esiti di una violenza cieca; i suoi personaggi sono senza qualità, senza aspirazioni, senza luce spirituale, ma nondimeno esprimono pulsioni eterne, elementari, con una grandiosa, agghiacciante musica.
Denaro e sesso sono fulcri intorno a cui si muove la storia. Thérèse vuole provare il piacere che un marito debole, imbelle, malaticcio le ha sempre negato. Laurent, il suo amante, vuole i mezzi per fare la bella vita, e per sposare Thérèse uccide con la sua complicità il povero Camille, per il quale non è spesa una parola di commozione. Ma denaro e sesso non spiegherebbero le tempeste di contraddizioni, di scontri, di finzioni, di follie in cui i due amanti omicidi si ritrovano a vivere. La figura della madre dell’ucciso, madame Raquin, che assiste paralizzata, senza poter più dire una parola, all’orgia di impudenza e di odio a cui i due amanti si abbandonano davanti a lei, sapendo che non riuscirà mai a denunciarli, ha la potenza rituale di un personaggio della tragedia classica. Testimone muta, impassibile, implacabile di una discesa al fondo dell’inferno.
Spero che si ritorni a leggere Zola. L’anatema del padre cappuccino della mia adolescenza è certamente caduto. Anche il genere del j’accuse oggi è inflazionato e spesso banalizzato. L’artista resta. Ed è l’artista a essere ancora, come disse Anatole France di Zola quando la sua salma fu portata al Pantheon, «un monumento della coscienza umana».
Oggi nessuno legge più Zola, in Italia. Forse proprio perché la fama dello scrittore fu oscurata da quella del militante, impegnato in battaglie anticlericali spesso grossolane e in battaglie civili, come quella celeberrima, e generosa, a difesa del capitano Dreyfus. Émile Zola però non è soltanto l’autore del J’accuse. Non è soltanto l’intellettuale engagé, figura che la Francia ha espresso sovente dal proprio grembo di Paese che assegna un ruolo insieme ribelle e pedagogico alla letteratura, da Voltaire a Camus a Sartre. Zola (1840-1902) è innanzi tutto un grande, un grandissimo romanziere.
Il «Meridiano» Mondadori a lui dedicato (Romanzi, pagg. CLI-1642, euro 55) e curato ottimamente da Pierluigi Pellini, ci offre la possibilità di risentire tutto il terribile fascino mitopoietico e attuale di questo scrittore in tre romanzi come Thérèse Raquin, L’Assommoir e Nanà.
Etichettato come padre del naturalismo, fonte principale del verismo di Giovanni Verga, banditore di una poetica positivista, determinista, sino alla crudeltà in cui l’osservazione del reale diventa anatomia e autopsia, Zola è certamente un romanziere che sposta l’asse dell’interesse letterario verso il malessere popolare, l’osservazione impietosa dei costumi nelle classi inferiori, il linguaggio gergale. Basta riaprire L’Assommoir, questo libro corale, cupo e senza apparente redenzione, per capirlo. Ma Zola non è soltanto questo. In lui il realismo non esclude momenti simbolici, né quella capacità di «composizione musicale» che perfino Paul Valéry, certo non tenero con il genere romanzo, riconobbe all’autore del ciclo dei Rougon-Macquart.
Giornalista rimase sempre. Attento al mondo intorno a lui, animato da una voglia di descrivere e capire la contemporaneità. E non gli fece male. Scrittore fluviale, pronto a cogliere i cambiamenti epocali, Zola sa anche che al fondo la realtà rimane sempre la stessa negli archetipi che muovono gli individui e le società. E la sua descrizione di un mondo degradato, senza sentimenti, senza autenticità, non esclude il senso del tragico, come poi farà il romanzo novecentesco, sino a rischiare la dissoluzione. Zola, sperimentatore, ribelle, crede ancora, come nota opportunamente il curatore del volume di cui parliamo, nella priorità della letteratura sulla politica, e dunque assegna alla letteratura un valore di conoscenza, se non di trasformazione, delle cose.
Dall’immersione nell’universo Zola sono uscito rafforzato in una mia convinzione: che il romanzo è la forma più alta di conoscenza delle dinamiche dei rapporti sociali, come si vede nella storia della figlia di Gervaise e dell’operaio Coupeau già incontrati nell’Assommoir, nell’aspra vicenda della cortigiana Nanà. Ed è insieme e soprattutto la più alta forma di conoscenza delle dinamiche dei rapporti tra corpo e corpo, psiche e psiche di individui che il destino mette in contatto. Thérèse Raquin, il libro con cui Zola inizia la sua carriera di autore di successo, è un’opera dall’andamento stringente e terrificante. La Parigi e la società del Secondo Impero, magistralmente tratteggiate, sono lo sfondo di un dramma dagli esiti di una violenza cieca; i suoi personaggi sono senza qualità, senza aspirazioni, senza luce spirituale, ma nondimeno esprimono pulsioni eterne, elementari, con una grandiosa, agghiacciante musica.
Denaro e sesso sono fulcri intorno a cui si muove la storia. Thérèse vuole provare il piacere che un marito debole, imbelle, malaticcio le ha sempre negato. Laurent, il suo amante, vuole i mezzi per fare la bella vita, e per sposare Thérèse uccide con la sua complicità il povero Camille, per il quale non è spesa una parola di commozione. Ma denaro e sesso non spiegherebbero le tempeste di contraddizioni, di scontri, di finzioni, di follie in cui i due amanti omicidi si ritrovano a vivere. La figura della madre dell’ucciso, madame Raquin, che assiste paralizzata, senza poter più dire una parola, all’orgia di impudenza e di odio a cui i due amanti si abbandonano davanti a lei, sapendo che non riuscirà mai a denunciarli, ha la potenza rituale di un personaggio della tragedia classica. Testimone muta, impassibile, implacabile di una discesa al fondo dell’inferno.
Spero che si ritorni a leggere Zola. L’anatema del padre cappuccino della mia adolescenza è certamente caduto. Anche il genere del j’accuse oggi è inflazionato e spesso banalizzato. L’artista resta. Ed è l’artista a essere ancora, come disse Anatole France di Zola quando la sua salma fu portata al Pantheon, «un monumento della coscienza umana».
«Il Giornale» del 12 aprile 2010
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