di Gigio Rancilio
Internet, dicono tutti, è sinonimo di libertà. Ma quando si parla di verità, le cose cambiano non poco. In America da tempo si stanno interrogando su come la rete e soprattutto il concetto di Web 2.0 (cioè la partecipazione totale della gente comune nella produzione di contenuti) stia modificando in maniera molto profonda il nostro modo di appropriarci e di percepire la verità. Perché se indubbiamente vero che senza Twitter (la piattaforma che mette online brevi messaggi degli utenti) il mondo non avrebbe saputo quasi nulla della rivoluzione verde in Iran (negata più volte dal regime), è altrettanto vero che sempre più spesso un messaggio su Twitter o l’articolo di un blog finiscono per avere la stessa dignità di una qualunque altra pubblicazione editoriale. Che esistano blog informatissimi e pieni di informazioni non lo nega nessuno, così come nessuno vuole negare che progressivamente i media tradizionali stanno perdendo credibilità, ma ciò che preoccupa i più avvertiti è la «marmellata mediatica» che esce da questo mix.
«L’ho letto da qualche parte, quindi deve essere vero». È questa, secondo i coniugi Barbara e David Mikkelson, la forma mentale che sta rovinando il nostro rapporto con l’informazione e la verità per colpa soprattutto di internet. Da noi i Mikkelson li conoscono pochi, ma in America sono delle star. I fondatori, nel 1996 (ben 14 anni fa!), del sito Snopes, specializzato «nel confutare leggende metropolitane, bufale o notizie false che girano via email sotto forma di catene di sant’Antonio». In pochi anni il loro sito è diventato così autorevole da venire utilizzato come certificatore di 'verità' e utilizzato persino dalle grandi reti televisive d’informazione. Proprio per metterci in guardia dai pericoli che si corrono nel dare troppa fiducia alle informazioni che circolano su internet, Snopes.com ha creato una sezione denominata «The Repository of Lost Legends» (acronimo di troll) dove i due hanno creato appositamente una serie di false leggende metropolitane, così verosimili da apparire (quasi) vere. A darci il termometro di quanto sia ormai prezioso il lavoro dei Mikkelson c’è un dato: il sito Snopes.com attira dai 7 agli 8 milioni di visitatori unici in un mese. «Gli articoli più letti sono quelli che riguardano le nostre paure quotidiane: malattie, truffe, bambini scomparsi. Le cose di tutti i giorni». I Mikkelson non si sentono delle star e nemmeno degli eroi. «Crediamo soltanto che nella società dell’iperinformazione come la nostra, quello di cui la gente ha e avrà sempre più bisogno sono arbitri onesti che possano aiutare i lettori comuni a distinguere i fatti dalla finzione». Il guru di internet Jaron Lanier fa un passo in più.
Intervistato poco tempo fa dal direttore del Sole 24 ore Gianni Riotta, gli ha ribadito ciò che ha scritto nel suo ultimo libro You are not a gadget: a manifesto: i contenuti di internet si stanno appiattendo sempre più. «I blog anonimi, con i loro inutili commenti, gli scherzi frivoli di tanti video ci hanno tutti ridotti a formichine liete di avere la faccina su Facebook, la battuta su Twitter.
Se volete sapere qualcosa la chiedete a Google, che vi manda a Wikipedia, punto e basta.
Altrimenti finite nella bolla dei siti arrabbiati, degli ultras, dove ognuno rafforza solo le sue idee. Ma un coro collettivo non può servire a scrivere la storia, né possiamo affidare l’opinione pubblica a capannelli di assatanati sui blog. La massa ha il potere di distorcere la storia, danneggiando le minoranze, e gli insulti dei teppisti online ossificano il dibattito e disperdono la ragione».
«L’ho letto da qualche parte, quindi deve essere vero». È questa, secondo i coniugi Barbara e David Mikkelson, la forma mentale che sta rovinando il nostro rapporto con l’informazione e la verità per colpa soprattutto di internet. Da noi i Mikkelson li conoscono pochi, ma in America sono delle star. I fondatori, nel 1996 (ben 14 anni fa!), del sito Snopes, specializzato «nel confutare leggende metropolitane, bufale o notizie false che girano via email sotto forma di catene di sant’Antonio». In pochi anni il loro sito è diventato così autorevole da venire utilizzato come certificatore di 'verità' e utilizzato persino dalle grandi reti televisive d’informazione. Proprio per metterci in guardia dai pericoli che si corrono nel dare troppa fiducia alle informazioni che circolano su internet, Snopes.com ha creato una sezione denominata «The Repository of Lost Legends» (acronimo di troll) dove i due hanno creato appositamente una serie di false leggende metropolitane, così verosimili da apparire (quasi) vere. A darci il termometro di quanto sia ormai prezioso il lavoro dei Mikkelson c’è un dato: il sito Snopes.com attira dai 7 agli 8 milioni di visitatori unici in un mese. «Gli articoli più letti sono quelli che riguardano le nostre paure quotidiane: malattie, truffe, bambini scomparsi. Le cose di tutti i giorni». I Mikkelson non si sentono delle star e nemmeno degli eroi. «Crediamo soltanto che nella società dell’iperinformazione come la nostra, quello di cui la gente ha e avrà sempre più bisogno sono arbitri onesti che possano aiutare i lettori comuni a distinguere i fatti dalla finzione». Il guru di internet Jaron Lanier fa un passo in più.
Intervistato poco tempo fa dal direttore del Sole 24 ore Gianni Riotta, gli ha ribadito ciò che ha scritto nel suo ultimo libro You are not a gadget: a manifesto: i contenuti di internet si stanno appiattendo sempre più. «I blog anonimi, con i loro inutili commenti, gli scherzi frivoli di tanti video ci hanno tutti ridotti a formichine liete di avere la faccina su Facebook, la battuta su Twitter.
Se volete sapere qualcosa la chiedete a Google, che vi manda a Wikipedia, punto e basta.
Altrimenti finite nella bolla dei siti arrabbiati, degli ultras, dove ognuno rafforza solo le sue idee. Ma un coro collettivo non può servire a scrivere la storia, né possiamo affidare l’opinione pubblica a capannelli di assatanati sui blog. La massa ha il potere di distorcere la storia, danneggiando le minoranze, e gli insulti dei teppisti online ossificano il dibattito e disperdono la ragione».
«Avvenire» dell'11 aprile 2010
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