di Gabriele Galateri di Genola *
Si può pensare a un'economia buona, animata da valori particolari, espressione di un'etica consapevole e condivisa, diversa e specifica rispetto a quella corrente? Insomma ci può essere un'economia "più buona" della società che la circonda? Difficile rispondere a questa domanda: ovviamente, non esistono un'economia "buona"e una "cattiva".Semmai esistono economie più o meno efficienti, più o meno produttive, più o meno competitive, più o meno sostenibili. E imprenditori e manager più o meno bravi, più o meno corretti, più o meno responsabili; dico responsabili a riguardo non solo delle aziende, ma del rapporto tra le aziende e la società. Il "come" (male o bene) le risorse vengono prodotte, amministrate, distribuite, riflette i chiaroscuri dell'ambiente sociale complessivo, i suoi valori di riferimento, le sue priorità, la sua cultura e i suoi costumi consolidati e come tutto questo viene in qualche modo regolato, indirizzato, governato da leggi, istituzioni, classi dirigenti.
Non è questione di buoni e cattivi (in via di principio). Alla fine, la vera differenza la fa il senso civico, la consapevolezza di essere cittadini di una comunità, con diritti e doveri chiari e condivisi; cittadini che hanno rispetto per lo stato, le sue istituzioni e per i propri simili. È una questione di educazione. Voglio dire: ci sono più probabilità che un'economia funzioni bene, al servizio di tutti, dove tutti sanno che cosa vuol dire rispettare, che so, le strisce pedonali. E perché è conveniente rispettarle.
«Nessun sistema - capitalismo, socialismo o che altro - può funzionare senza un senso di etica e di valori al proprio centro»: così scrive Fareed Zakaria nel suo manifesto capitalista Greed is good.Come si fa a contestare l'opinione di Zakaria? Perché avvertiamo una caduta dell'etica e dei valori? Che cosa l'ha provocata? Lo stesso Zakaria ha provato a dare delle spiegazioni: sostiene che è il risultato di un mondo degli affari (in particolare, le banche) che si è trovato a fare i conti con l'apertura dei mercati e col formidabile incremento della competizione; il che avrebbe messo in crisi le prospettive lunghe su cui si taravano monopoli e cartelli, avrebbe minato la sicurezza delle élite nei propri privilegi; avrebbe schiacciato tutto e tutti sull'ansietà e l'insicurezza di dover essere giudicati trimestre su trimestre. L'ossessione dei profitti e del breve termine avrebbe volatilizzato l'antico senso di responsabilità verso tutte le constituencies , alimentando solo quello verso le proprie aziende.
Che cosa ha dunque indebolito la credenza in principi etici oggettivi e condivisi? La mia personale sensazione è che più o meno dalla metà degli anni Sessanta nella società occidentale si sia innescata una trasformazione profondissima. Ma accanto a ciò c'è stato un indebolimento delle strutture che sovrintendevano alle frontiere morali: la famiglia, innanzitutto, ma anche le istituzioni, la scuola, le università, le chiese, gli stessi mass media quando hanno cominciato a fare a gara tra loro per veicolare modelli di consumo e stili di vita cavalcando l'audience. L'educazione, compresa la dura ma lungimirante educazione alle regole e alle regole della libertà, ha sempre meno interpreti che la sappiamo assicurare con autorevolezza. Parlo, ovviamente, di quell'autorevolezza che è fondata sulla serietà, sul rigore morale,sull'esperienza, sul sacrificio personale, sulla fatica dello studio, dell'impegno, delle conquiste passo dopo passo. Questo genere di autorevolezza conta poco.
In ogni caso, per quanto riguarda i valori di riferimento, credo che nella storia siano emersi chiaramente quelli irrinunciabili per la società di oggi e di domani: il rispetto del prossimo, la solidarietà, la correttezza, la trasparenza, il senso di responsabilità e il senso del limite che sono i veri fondamenti della libertà.
Per quanto riguarda le azioni che possono aiutarci per lo meno a difendere questi valori, continuo a pensare che il vero pilastro sia quello dell'educazione e della formazione, per la quale mi pare indispensabile un vero salto di qualità del sistema, compreso l'insegnamento (non residuale e non rituale) dell'educazione civica. Intervenire sull'educazione e sulla formazione (e sulle loro agenzie, famiglia e scuola in primis) è tutt'altro che facile in qualsiasi parte del mondo. Ma è un passaggio che non si può evitare se vogliamo costruire una società sostenibile.
Il rischio altrimenti è l'ulteriore diffusione dello stereotipo che considera l'economia di mercato luogo dell'anarchia e della sopraffazione. L'arcivescovo Reinhard Marx ha parlato recentemente di «capitalismo primitivo governato costitutivamente e illimitatamente dalla sfrenatezza e dalla cupidigia del singolo uomo». Ma è davvero così? Io sono convinto che ci fosse molta più sopraffazione prima che il mercato venisse istituzionalizzato. Mi pare che fosse stato già Plauto a parlare di homo homini
lupus, poi ripreso da Hobbes. Ora a me pare che ci sia molta più giustizia oggi e soprattutto nelle economie di mercato, e nelle economie di mercato quando queste si coniugano con la democrazia, che è lo strumento che ci siamo dati per far partecipare il maggior numero di persone possibile ai dividendi della crescita economica. È dove c'è meno democrazia che sono forti anarchia e sopraffazione. Non del mercato; di tutti.
In sostanza, non so se lo spirito originario dell'uomo, come di qualunque animale, si esprima nella sopraffazione e nel potere. Nella lotta per la sopravvivenza sì, nell'aggressione egoistica non credo. Di certo è proprio l'introduzione delle regole (e della più efficace forma politica di amministrazione delle regole: la democrazia) che ha permesso il passaggio da una società della sopraffazione a una società civile, con indubbi vantaggi per il benessere collettivo.
Il mercato non può da solo produrre principi etici. Il mercato "respira" i valori etici (o i disvalori) in cui la società crede, che le istituzioni praticano e difendono, che la classe dirigente (ma forse sarebbe meglio dire le diverse componenti della classe dirigente - la "classe dirigente" mi pare un astratto) praticano.
È stato scritto che occorre ripensare «il contratto sociale tra stato e mercato» (Michael Skapinker) ma francamente non so dire se occorra ripensare il contratto sociale stato-mercato. Per quel che mi riguarda, sono del parere che il mercato non si autoregoli, e lo dimostrano le recenti vicende della tempesta finanziaria internazionale. Per meglio dire: è possibile e auspicabile che in una società complessa come la nostra ci sia ampia facoltà di autoregolazione. La libertà è il sale della vita e anche dell'economia. Ma maggiore è l'autonomia concessa, maggiore deve essere la capacità dello stato di controllare ed eventualmente d'intervenire. Senza il bilanciamento tra due forze non c'èequilibrio.E salta tutto. Siamo arrivati infine alla questione dell'indipendenza della politica dall'economia. È evidente che finché dalla politica dipenderanno conseguenze economiche rilevanti (autorizzazioni, contratti e così via) e i politici o, per meglio dire, i pubblici amministratori saranno mediamente pagati molto meno degli operatori economici, il rischio di corruzione è elevatissimo. Quando si dà un enorme potere a persone economicamente fragili, i guai sono dietro l'angolo. Si possono evitare? Non è facile. Credo che l'educazione morale possa fare molto. Ma a parte questo, forse sarebbe bene trovare il modo di agevolare lo scambio di esperienze tra politica, società e mondo economico e creare le condizioni per un maggior equilibrio retributivo tra le classi dirigenti.
Come? Un contenimento dei guadagni più elevati, correlandoli ai risultati di creazione di valore nel medio-lungo termine, può essere un passaggio utile. Ma credo anche che una maggiore osmosi, una maggiore fluidità di posizioni di responsabilità tra pubblico e privato possa aiutare. Voglio dire: se un professore d'università è chiamato a ricoprire un incarico ministeriale e terminato questo va a dirigere un'impresa, una banca (sempre, ovviamente, che ne abbia le capacità, non gli "appoggi giusti") e poi magari torna nella pubblica amministrazione; se un meccanismo del genere potesse essere attivato, probabilmente ci sarebbero un po' meno avidità e corruzione in giro. Negli Stati Uniti mi pare che funzioni così. E funziona abbastanza bene.
Non è questione di buoni e cattivi (in via di principio). Alla fine, la vera differenza la fa il senso civico, la consapevolezza di essere cittadini di una comunità, con diritti e doveri chiari e condivisi; cittadini che hanno rispetto per lo stato, le sue istituzioni e per i propri simili. È una questione di educazione. Voglio dire: ci sono più probabilità che un'economia funzioni bene, al servizio di tutti, dove tutti sanno che cosa vuol dire rispettare, che so, le strisce pedonali. E perché è conveniente rispettarle.
«Nessun sistema - capitalismo, socialismo o che altro - può funzionare senza un senso di etica e di valori al proprio centro»: così scrive Fareed Zakaria nel suo manifesto capitalista Greed is good.Come si fa a contestare l'opinione di Zakaria? Perché avvertiamo una caduta dell'etica e dei valori? Che cosa l'ha provocata? Lo stesso Zakaria ha provato a dare delle spiegazioni: sostiene che è il risultato di un mondo degli affari (in particolare, le banche) che si è trovato a fare i conti con l'apertura dei mercati e col formidabile incremento della competizione; il che avrebbe messo in crisi le prospettive lunghe su cui si taravano monopoli e cartelli, avrebbe minato la sicurezza delle élite nei propri privilegi; avrebbe schiacciato tutto e tutti sull'ansietà e l'insicurezza di dover essere giudicati trimestre su trimestre. L'ossessione dei profitti e del breve termine avrebbe volatilizzato l'antico senso di responsabilità verso tutte le constituencies , alimentando solo quello verso le proprie aziende.
Che cosa ha dunque indebolito la credenza in principi etici oggettivi e condivisi? La mia personale sensazione è che più o meno dalla metà degli anni Sessanta nella società occidentale si sia innescata una trasformazione profondissima. Ma accanto a ciò c'è stato un indebolimento delle strutture che sovrintendevano alle frontiere morali: la famiglia, innanzitutto, ma anche le istituzioni, la scuola, le università, le chiese, gli stessi mass media quando hanno cominciato a fare a gara tra loro per veicolare modelli di consumo e stili di vita cavalcando l'audience. L'educazione, compresa la dura ma lungimirante educazione alle regole e alle regole della libertà, ha sempre meno interpreti che la sappiamo assicurare con autorevolezza. Parlo, ovviamente, di quell'autorevolezza che è fondata sulla serietà, sul rigore morale,sull'esperienza, sul sacrificio personale, sulla fatica dello studio, dell'impegno, delle conquiste passo dopo passo. Questo genere di autorevolezza conta poco.
In ogni caso, per quanto riguarda i valori di riferimento, credo che nella storia siano emersi chiaramente quelli irrinunciabili per la società di oggi e di domani: il rispetto del prossimo, la solidarietà, la correttezza, la trasparenza, il senso di responsabilità e il senso del limite che sono i veri fondamenti della libertà.
Per quanto riguarda le azioni che possono aiutarci per lo meno a difendere questi valori, continuo a pensare che il vero pilastro sia quello dell'educazione e della formazione, per la quale mi pare indispensabile un vero salto di qualità del sistema, compreso l'insegnamento (non residuale e non rituale) dell'educazione civica. Intervenire sull'educazione e sulla formazione (e sulle loro agenzie, famiglia e scuola in primis) è tutt'altro che facile in qualsiasi parte del mondo. Ma è un passaggio che non si può evitare se vogliamo costruire una società sostenibile.
Il rischio altrimenti è l'ulteriore diffusione dello stereotipo che considera l'economia di mercato luogo dell'anarchia e della sopraffazione. L'arcivescovo Reinhard Marx ha parlato recentemente di «capitalismo primitivo governato costitutivamente e illimitatamente dalla sfrenatezza e dalla cupidigia del singolo uomo». Ma è davvero così? Io sono convinto che ci fosse molta più sopraffazione prima che il mercato venisse istituzionalizzato. Mi pare che fosse stato già Plauto a parlare di homo homini
lupus, poi ripreso da Hobbes. Ora a me pare che ci sia molta più giustizia oggi e soprattutto nelle economie di mercato, e nelle economie di mercato quando queste si coniugano con la democrazia, che è lo strumento che ci siamo dati per far partecipare il maggior numero di persone possibile ai dividendi della crescita economica. È dove c'è meno democrazia che sono forti anarchia e sopraffazione. Non del mercato; di tutti.
In sostanza, non so se lo spirito originario dell'uomo, come di qualunque animale, si esprima nella sopraffazione e nel potere. Nella lotta per la sopravvivenza sì, nell'aggressione egoistica non credo. Di certo è proprio l'introduzione delle regole (e della più efficace forma politica di amministrazione delle regole: la democrazia) che ha permesso il passaggio da una società della sopraffazione a una società civile, con indubbi vantaggi per il benessere collettivo.
Il mercato non può da solo produrre principi etici. Il mercato "respira" i valori etici (o i disvalori) in cui la società crede, che le istituzioni praticano e difendono, che la classe dirigente (ma forse sarebbe meglio dire le diverse componenti della classe dirigente - la "classe dirigente" mi pare un astratto) praticano.
È stato scritto che occorre ripensare «il contratto sociale tra stato e mercato» (Michael Skapinker) ma francamente non so dire se occorra ripensare il contratto sociale stato-mercato. Per quel che mi riguarda, sono del parere che il mercato non si autoregoli, e lo dimostrano le recenti vicende della tempesta finanziaria internazionale. Per meglio dire: è possibile e auspicabile che in una società complessa come la nostra ci sia ampia facoltà di autoregolazione. La libertà è il sale della vita e anche dell'economia. Ma maggiore è l'autonomia concessa, maggiore deve essere la capacità dello stato di controllare ed eventualmente d'intervenire. Senza il bilanciamento tra due forze non c'èequilibrio.E salta tutto. Siamo arrivati infine alla questione dell'indipendenza della politica dall'economia. È evidente che finché dalla politica dipenderanno conseguenze economiche rilevanti (autorizzazioni, contratti e così via) e i politici o, per meglio dire, i pubblici amministratori saranno mediamente pagati molto meno degli operatori economici, il rischio di corruzione è elevatissimo. Quando si dà un enorme potere a persone economicamente fragili, i guai sono dietro l'angolo. Si possono evitare? Non è facile. Credo che l'educazione morale possa fare molto. Ma a parte questo, forse sarebbe bene trovare il modo di agevolare lo scambio di esperienze tra politica, società e mondo economico e creare le condizioni per un maggior equilibrio retributivo tra le classi dirigenti.
Come? Un contenimento dei guadagni più elevati, correlandoli ai risultati di creazione di valore nel medio-lungo termine, può essere un passaggio utile. Ma credo anche che una maggiore osmosi, una maggiore fluidità di posizioni di responsabilità tra pubblico e privato possa aiutare. Voglio dire: se un professore d'università è chiamato a ricoprire un incarico ministeriale e terminato questo va a dirigere un'impresa, una banca (sempre, ovviamente, che ne abbia le capacità, non gli "appoggi giusti") e poi magari torna nella pubblica amministrazione; se un meccanismo del genere potesse essere attivato, probabilmente ci sarebbero un po' meno avidità e corruzione in giro. Negli Stati Uniti mi pare che funzioni così. E funziona abbastanza bene.
* Presidente di Telecom Italia
«Il Sole 24 Ore» del 3 aprile 2010
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