Perché Bob Dylan non suonerà a Pechino e a Shanghai
di Nicoletta Tiliacos
“Ne è passata di acqua sotto i ponti da quando le avanguardie del folk e del rock guardavano con simpatia alla Repubblica popolare cinese”. Mimmo Franzinelli, che oltre a essere studioso dell’Italia del Novecento lo è anche del rock e della sua storia (Rock & servizi segreti è il suo ultimo libro, edito da Bollati Boringhieri), commenta con il Foglio il veto cinese ai concerti di Bob Dylan. “Per citare un paio di esempi di quella passata simpatia – rievoca Franzinelli – alla metà degli anni Sessanta il folksinger Phil Ochs riproduceva poesie di Mao sulle copertine dei suoi dischi, per dimostrare che il nemico non era brutto come lo si dipingeva (anche per questo l’Fbi lo angariava con un cerchio di sorveglianza che gli avrebbe rovinato la carriera e distrutto la vita). Poi c’è stata Tian An Men, “che ha dissolto ogni residua illusione anche tra le rockstar di sinistra”.
Ma dopo che il ministro della Cultura della Repubblica popolare cinese ha vietato l’esibizione di Bob Dylan, viene da pensare che Pechino si attardi in un’immagine anacronistica dell’attempato menestrello di Duluth, legata al suo impegno giovanile, quando sulle note di ‘Blowin’ in the Wind’ animava le manifestazioni per i diritti civili, o quando con George Jackson denunciava la repressione contro le Black Panther. Dylan, oggi vicino alla settantesima primavera, nel tempo si è trasformato in un’imponente macchina da spettacolo. Ha suonato e suona in tutti i continenti, per chiunque gli paghi un cospicuo ingaggio. La frequenza dei suoi concerti è da premio Guinness, anche se la qualità lascia a desiderare e l’innovazione è assente. L’artista non si è discostato dal suo standard nemmeno dinanzi a Papa Wojtyla, al congresso eucaristico di Bologna del 27 settembre 1997: tre canzoni in scaletta (‘Knockin’ on Heaven’s Door’, ‘A Hard Rain’s A-Gonna-Fall’ e ‘Forever Young’), una rapida stretta di mano al Pontefice e via di corsa verso il successivo impegno. In quella circostanza, peraltro, fu Giovanni Paolo II in persona a volere la presenza di Dylan, sconsigliata dall’allora cardinale Joseph Ratzinger, severo censore della musica rock e quindi contrario al suo inserimento in occasioni liturgiche.
Ma dopo che il ministro della Cultura della Repubblica popolare cinese ha vietato l’esibizione di Bob Dylan, viene da pensare che Pechino si attardi in un’immagine anacronistica dell’attempato menestrello di Duluth, legata al suo impegno giovanile, quando sulle note di ‘Blowin’ in the Wind’ animava le manifestazioni per i diritti civili, o quando con George Jackson denunciava la repressione contro le Black Panther. Dylan, oggi vicino alla settantesima primavera, nel tempo si è trasformato in un’imponente macchina da spettacolo. Ha suonato e suona in tutti i continenti, per chiunque gli paghi un cospicuo ingaggio. La frequenza dei suoi concerti è da premio Guinness, anche se la qualità lascia a desiderare e l’innovazione è assente. L’artista non si è discostato dal suo standard nemmeno dinanzi a Papa Wojtyla, al congresso eucaristico di Bologna del 27 settembre 1997: tre canzoni in scaletta (‘Knockin’ on Heaven’s Door’, ‘A Hard Rain’s A-Gonna-Fall’ e ‘Forever Young’), una rapida stretta di mano al Pontefice e via di corsa verso il successivo impegno. In quella circostanza, peraltro, fu Giovanni Paolo II in persona a volere la presenza di Dylan, sconsigliata dall’allora cardinale Joseph Ratzinger, severo censore della musica rock e quindi contrario al suo inserimento in occasioni liturgiche.
E, nel 1971, Grace Slick e Paul Kantner (Jefferson Airplane) chiamavano la loro primogenita China, dedicandole l’omonima canzone sull’album ‘Sunfighter’”.
E ora, dice ancora Franzinelli, per ricollocare Dylan in un ruolo pericoloso e sovversivo “ci voleva l’ineffabile titolare del Minculpop di Pechino, che con decisione clamorosamente autolesionista ha cancellato lo spettacolo.
La notizia dei concerti di Pechino e a Shanghai avrebbe al più riempito scarni comunicati d’agenzia, giusto all’insegna del fatto curioso, mentre la bomba dell’annullamento censorio riempirà i media e rilancerà il mito di Dylan, in una fase di bonaccia della sua carriera. Questa decisione dimostra in sostanza l’autoreferenzialità, l’autarchia culturale e la visione liberticida dei governanti cinesi”. Così, Mimmo Franzinelli si sente di voler ironicamente dire “molte grazie al compagno ministro, per avere dimostrato che in Cina il potere teme la musica rock, per il suo potenziale sovversivo e per la presa sulle giovani generazioni. Speriamo che di tutto questo si accorgano i troppi artisti dimentichi dei loro picchi creativi e adattatisi alla routine. L’occasione è propizia, più che per l’ennesima riscoperta di Bob Dylan, per approfondire la conoscenza della situazione cinese e alzare la protesta contro la repressione neo colonialista in Tibet, la cui temuta denuncia da parte di una star internazionale ha probabilmente spinto i governanti comunisti a bandire i due concerti”.
«Il Foglio» del 6 aprile 2010
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